Un libro molto particolare. Nasce da una discussione pubblica tra filosofi, critici d'arte, sociologi per poi essere arricchito dei testi che costituiscono il background teorico a cui fanno riferimento i partecipanti all'incontro. La sua discontinuità, tuttavia, non è un limite, bensì uno dei motivi di interesse. Già il titolo - Il capitalismo divino, Mimesis edizioni, pp. 160, euro 14 - illustra bene il campo tematico su cui collocarlo, anche se l'andamento della discussione provoca sicuramente una sensazione di smarrimento.
L'incontro, che ha visto partecipare Borys Groys, Jochem Hörisch, Thomas Macho, Peter Sloterdijk e Peter Weibel, si è infatti consumato nel 2004, cioè quando nulla faceva supporre che da lì a tre anni la slavina dei mutui subprime e la valanga del cosiddetto «debito sovrano» avrebbero sollevato dubbi sulla fragilità del capitalismo. E tuttavia molti degli elementi che emergono dalla riflessione - e dai testi posti in appendice di Walter Benjamin, Max Weber, Friderich Engels e Slavoj Zizek - sono di stringente attualità.
Il punto di partenza è che il capitalismo è diventato una religione. Il riferimento è a un saggio scritto da Walter Benjamin nel 1921 - è ora riproposta con una nuova traduzione dagli editori Riuniti, che hanno cominciato a pubblicare gli scritti politici del teorico tedesco in una edizione curata da Massimo Palma -, dove veniva affermato che il capitalismo serve a dare risposta, così come accadeva in passato dalla religioni, alle inquietudini, le ansie e sofferenze degli uomini e donne. Benjamin, tuttavia, avvertiva che è una religione culturale, che non ha dogmi da proporre come precetti, ma appunto risposte mutevoli nel tempo e nello spazio. Rispetto a questa «provocazione», gli autori spesso scelgono la strada più mondana della constatazione che il capitalismo si presenta come una verità rivelata, che non tollera dubbi o contestazioni.
Posta questa constatazione, l'andamento della discussione presenta invece motivi di attualità. A sgomberare il campo da possibili fraintendimenti è Peter Sloderdijk. Il filosofo tedesco sostiene che una forma di capitalismo ha esaurito la sua spinta propulsiva, domandandosi quale sarà l'etica che accompagnerà la sua evoluzione. Sicuramente non quella protestante, o cristiana, evocando il celebre saggio di Max Werner, bensì quelle - il plurale è d'obbligo - che vengono dalle religioni «orientali». Il taoismo, lo shintoismo, il confucianesimo, si potrebbe aggiungere, perché stabiliscono l'immanenza di una visione delle relazioni sociali fondate sull'armonia e sull'assenza di conflitti, elementi garantiti da forme statuali «maternalistiche», che si prendono cioè cura non solo dei corpi ma anche delle anime dei sudditi.
Lo Stato, cacciato dalla porta dalle ideologia liberale occidentale, rientra dalla finestra con il preciso ruolo, direbbe Michael Foucault, pastorale. Da questo punto di vista, il capitalismo contemporaneo può fare a meno della democrazia - in fondo è questa la caratteristica principale del cosiddetto neoliberismo - ma non dello Stato, che deve regolare la vita sociale per garantire armonia, ma anche per dare il contesto in cui fornire risposte alle domande, le inquietudini, le sofferenze umani. Così se il capitalismo è una religione, lo stato è il suo tempio, meglio la sua chiesa.
Con questa tesi, Peter Sloderdijk vuol porre il tema della superiorità del modello «orientale» di capitalismo rispetto a quello renano o anglosassone. Non solo perché la Cina, Singapore, l'India hanno tassi di crescita di gran lunga superiore, ma perché sono paesi che hanno elaborato sistemi politici «originali», cioè capaci di cancellare quell'ostacolo - la democrazia - che impedisce al capitalismo di continuare a svilupparsi. Ma, altro aspetto interessante, è che molti paesi occidentali hanno cominciato a riprodurre, e quindi ad adattare, quel modello sociale e politico. Il sarcasmo sul berlusconismo o sulla destra statunitense non è certo dovuto alla conclamata mancanza di statura politica di Silvio Berlusconi o George W. Bush, bensì al fatto che non potevano e possono liquidare così facilmente la democrazia parlamentare. E non a caso che Sloderdijk inviti a guardare con attenzione a quanto sta accadendo nella Russia di Putin.
Questa la provocazione, generalmente accolta dagli altri relatori al seminario riprodotto dal volume. Ma ogni intervento aggiunge elementi che meritano attenzione. Ad esempio quando viene indicato nei finanziari i monaci della religione capitalistica, che non invita più alla parsimonia come invece facevano i calvinisti, ma al godimento. Ma i finanzieri non sono uomini e donne edonisti. A modo loro invitano solo a seguire precetti, regole che possono garantire l'armonia e il superamento dello stato di necessità in cui tutti siamo condannati a vivere. I mercanti, i finanzieri e il consumo sono quindi monaci e regole di vita che consentano non la felicità, bensì la possibilità di vivere in armonia. Il capitalismo si è dunque «culturalizzato», perché quando vende merci sta in realtà proponendo stili di vita, modelli di relazioni sociali, mentre l'andamento della borsa valori è il barometro delle condizioni esistenziali dei singoli. Insomma, l'economia del brand, assieme al potere performativo della finanza, sono gli elementi costitutivi del capitalismo come religione.
Le tesi espresse nel volume andrebbero contestualizzate alla situazione attuale, dove c'è poco spazio, almeno in Europa e negli Stati Uniti, per l'armonia. Ma è indubbio che il nesso tra democrazia e capitalismo è sempre più tenue, così come è evidente che la finanza continua a svolgere il ruolo di governo non solo dell'economia ma della vita sociale. E fa molto sorridere sentire commentatori della vita politica italiana - ma accade lo stesso in Francia, Germania e Regno Unito - che un liberale è cosa diversa da un liberista. Nel capitalismo divino i chierici della finanza parlano infatti lo stesso idioma. Possono cambiare gli accenti, ma tra Mario Monti e Jean-Claude Trichet non c'è molta differenza. Entrambi sono custodi del «capitalismo come religione» e hanno una concezione della democrazia che farebbe arrossire Adam Smith, che non è certo secondo a nessuno per aver esaltato la mano invisibile del mercato.