Ytali online, 22 agosto 2016
In casa ho appeso come un quadro l’ingrandimento di una foto che coglie nel tramonto un padre baffuto, una madre in nero col bimbo in grembo, una donna più anziana in nero, sullo sfondo una palma. «Chi sono? Arabi? Dove l’hai scattata?», mi chiedono sistematicamente i miei ospiti. «No -rispondo- sono siciliani di Partinico ripresi alla fine degli Anni Cinquanta durante un digiuno di Danilo Dolci».
C’è spesso curiosità in chi chiede e poi assorbe (incerto) la risposta. E allora io mostro loro un ritaglio della Stampa, vecchio ormai di un paio d’anni. Era stato, ed è rimasto, l’unico giornale a riferire di una ricerca di quattro università da cui è emerso un dato molto interessante: gli italiani sono cinquantasette tipi diversi, tutta colpa di un mix di patrimoni genetici. Il razzismo non c’entra nulla, c’entra piuttosto l’incredibile impasto di civiltà che ha formato non solo la Sicilia ma tutta l’Italia che per millenni è stata scorribanda di nazioni, di poteri, di eserciti di mezzo mondo che hanno provocato incroci, fusioni, disaggregazioni, minuscole immigrazioni.
Con il risultato, scriveva Stefano Rizzato in quel pezzo del quotidiano torinese, che c’è più distanza/diversità genetica all’interno del nostro paese che tra Spagna e Ungheria. Come dire che a tenere insieme gli italiani ci sono il passaporto, un tricolore e, appena da qualche decennio, una lingua. Tutto il resto è diverso, e differente soprattutto il patrimonio genetico: quel codice nascosto tra le eliche del Dna e destinato a passare da padre in figlio per secoli. L’Italia, insomma, è il paese con la biodiversità umana più estesa d’Europa: lo conferma uno studio che ha unito genetica e antropologia, che è durato oltre sei anni ed è stato condotto da quattro atenei: quelli di Roma-La Sapienza, Bologna, Cagliari e Pisa.
Da una parte la raccolta di campioni di saliva, poi catalogati e confrontati nei luoghi più disparati d’Italia; dall’altra l’incrocio tra questa raccolta e il meticoloso studio linguistico, culturale ed etnografico dello stivale. “Abbiamo sfruttato l’aspetto genetico per mostrare in tutta la sua ricchezza le diversità umane del nostro Paese”, aveva spiegato a Rizzato il prof. Giovanni Destro Bisol, antropologo alla Sapienza, che ha coordinato il team di ricercatori. Chi sa, del resto, che esistono comunità di origine croata tra Abruzzo e Molise, oppure che, comprese l’albanese e la ladina (piuttosto note), ci sono ben dodici minoranze, anche linguistiche, tutelate dalla nostra Costituzione?
Su quali indicatori si è basata l’équipe inter-universitaria? «Su due indicatori molto sensibili», aveva aggiunto il prof. Destro Bisol: «l Dna mitocondriale, ereditato esclusivamente per via materna, e il cromosoma Y, localizzato nel nucleo delle cellule ma ereditato solo nella linea maschile». Ora questi due indicatori conservano traccia anche di variazioni ed evoluzioni anche recenti. D’altra parte è stata tenuta presente anche una certa “unicità” geografica dell’Italia: «In un paese lungo e stretto, con una miriade di habitat diversi, la biodiversità umana non è meno accentuata di quella che riguarda piante e animali». In gran parte dei casi, poi, è stata la combinazione tra isolamento geografico e linguistico a proteggere l’unicità di popolazioni che ancora oggi risultano diversissime persino da quelle confinanti.
In Europa un melting pot comparabile c’è solo nei paesi balcanici. Messe insieme, le minoranze presenti sul territorio italiano sono appena il cinque per cento della popolazione. Sono comunità sempre più piccole che tendono a spopolarsi ma vivono e difendono la loro identità con intensità e orgoglio. Ma anche con la profonda consapevolezza di essere parte della stessa nazione.