La Repubblica, 17 aprile 2017
CON la visita a Lesbo papa Francesco ha deciso di esporre, sul fronte politico più caldo di questo momento, tutta la sua forza e tutta la sua impotenza. Ha compiuto un gesto che s’iscrive nel quadro dei grandi gesti profetici e apocalittici mancati ai decenni recenti e affidati ad una impossibile storia dei “se”: se Pio XII fosse andato a Palazzo Salviati a via della Lungara, la sera del 16 ottobre 1943, dove erano stati portati gli ebrei di Roma...; se Giovanni Paolo II in visita in Cile avesse chiesto a Pinochet di accompagnarlo al forte “Silva Palma” a Valparaiso, dove si torturavano i desaparecidos... La ricerca storica ci insegna la ragioni per cui questo non accadde: la convinzione di dover agire diplomaticamente, di poter far meglio dialogando con quei poteri, qualche illusione politicistica, e via dicendo.
Davanti al dramma di popoli in fuga da un segno apocalittico come la guerra – «a bello fame et peste», dicevano le litanie – è accaduta, invece, la visita di Francesco a Lesbo. Dove arriva una disperazione che non ha nulla di comparabile alla Shoah, che non ha dietro la spietatezza della realpolitik americana: ma che imponeva anche il papato di delle scelte. E Francesco ha fatto la sue.
Ha compiuto un atto liturgico di intercomunione con l’ortodossia, toccando insieme la carne del Cristo povero nei poveri. Ha scelto di compiere un gesto di umiliazione: e alla propaganda jihadista sui crociati mostra un credente disarmato che può solo carezzare qualche viso di quelli che hanno vissuto per decenni sotto le bombe e devono fuggire portandosi la vita come bottino. E ha compiuto un grande gesto politico.
Che consiste nel girare le spalle alla politica, volgersi dalla parte delle vittime e parlare (anche alla politica) solo rimanendo lì, accanto al corpo di Abele: l’Abele dei morti distesi sul fondo dei mari che separano le terre della guerra dalle terre [della]paura; l’Abele degli innocenti vivi e piangenti che gli sono parati innanzi con gesti che mimavano gli episodi stessi del Vangelo.
«Troverete qualche lacrima da asciugare» disse papa Giovanni la sera del discorso della Luna; Francesco è andato a dare la carezza del Papa ai bambini che piangevano disperati, che si sono prostrati davanti a lui in un gesto straziante che consegnava ad un uomo andato a dire «non perdete la speranza», tutta la disperazione inconsolabile di chi è in fuga e rischia di essere ributtato nelle mani di chi ha caricato i propri campi di profughi da usare come arma e come leva di un ricatto che ha funzionato benino.
Da quel punto-Abele ha lanciato un messaggio politico che denuncia l’impotenza di un’Europa che si misura con questi drammi, o facendosi portare dagli amici – Tajani ne aveva ha fatto un mestiere – simpatici capi religiosi che rassicurano una società secolarizzata sulla bontà delle “religioni” o facendo qualche domanda sbagliata alla sociologia religiosa di solito francese... La soluzione che Francesco ha “implorato” infatti non è fatta di principi: legge naturale, norme morali, concetti di civiltà; ma di una prossimità reale di cui ha dato l’esempio andando solo (si portasse il presidente della conferenza episcopale europea non sarebbe male) insieme al Patriarca Ecumenico e ai suoi metropoliti.
Esattamente come ha imposto ai vescovi cattolici di prendere in mano le situazioni “cosiddette irregolari” così ha fatto coi migranti. Il Papa ha stabilito che i vescovi debbano prender in mano personalmente quei drammi e i disastri degli amori estinti non perché pensi che i vescovi sappiano dire parole appropriate: ma perché pensa che sia indispensabile ai vescovi per essere vescovi. E allo stesso modo il papa sa che non saranno le parrocchie dello staterello Vaticano o gli episcopi che aprono qualche stanza ad alcune famiglie a risolvere il dramma di milioni di persone cacciate da casa da guerre lucrose e da lucrosi maneggi politico-petroliferi: sa, però, che aver vicino anche solo un poco di quel disastro rende umano chi lo fa, e disumano chi non lo fa.
«Chi alza muri non è cristiano» ha detto rispondendo a una battuta di Trump che credeva di poter fare lo strafottente col vescovo di Roma. A Lesbo ha spiegato che chi non vuol vedere la sofferenza del carcerato – che “è” il Cristo dice Matteo 25 – non è umano.
Perché come dice Francesco «siamo tutti migranti»: e a forza di muri e confini questo continente che ha inventato le guerre di religione, la guerra totale, il colonialismo, i totalitarismi, lo sterminio e la pulizia etnica, finirà per ripetersi. E perché come dice Bartholomeos «la società sarà giudicata per come vi tratta »: in senso etimologico una Europa “se-cura” – cioè che si libera dal prendersi “cura” di nessuno – è una utopia destinata a dar frutti malvagi.
Per una Europa che si “cura” della pace e della giustizia di terre dimenticate, dove i grandi affari generano grandi cinismi, non basta il disegno di un bambino afghano messo sul tavolo del Papa. Le tre famiglie che diventano rifugiati in Vaticano non sono “la” soluzione di questo dramma epocale: hanno senso se sono un promemoria, un gesto che suscita qualche santa emulazione nei vescovi, nei credenti, negli europei.