«500 mila firme entro 90 giorni contro il Fiscal compact. Nel comitato promotore economisti, sindacalisti, parlamentari di tutti gli schieramenti politici. Per eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea».
Il manifesto, 27 giugno 2014
Novanta giorni, da giovedì 3 luglio a martedì 30 settembre. È questo il tempo a disposizione del comitato promotore dei quattro referendum «Stop all’austerità, sì alla crescita, sì all’Europa del lavoro e di un nuovo sviluppo» per raccogliere 500 mila firme e convocare una consultazione popolare sul Fiscal compact, il «pilota automatico» che obbligherà l’Italia a tagliare il debito pubblico dal 133% al 60% a partire dal 2016 fino al 2036.
Composto da economisti, giuristi e sindacalisti di diverso orientamento culturale e politico, dall’ex viceministro Pdl dell’Economia, Mario Baldassarri, al sindacalista Cgil Danilo Barbi, dagli economisti Riccardo Realfonzo e Gustavo Piga, a Cesare Salvi, Laura Pennacchi e Paolo De Ioanna, ieri alla presentazione dell’iniziativa alla Camera dei deputati il comitato si è mostrato fiducioso sulla possibilità di scalare una vetta impegnativa in breve tempo. Un giurista come Giulio Salerno ritiene che i quattro quesiti referendari su alcune disposizioni della legge 243 del 2012 (la legge che ha attuato il principio di equilibrio del bilancio pubblico introdotto dalla legge costituzionale n°1 del 2012), possano essere giudicati ammissibili dalla Corte Costituzionale.
Il referendum si rivolge ad una legge ordinaria di attuazione della Costituzione e non comporterà la violazione degli obblighi contratti dal nostro paese in sede europea o in un trattato internazionale, fattispecie che non potrebbero essere oggetto di una consultazione referendaria. Secondo Giulio Salerno, pur essendo stato votato dalla maggioranza assoluta dei membri delle Camere, il pareggio di bilancio non può essere considerato una norma «rinforzata e organica». In più, non tutte le parti del pilastro dell’austerità finanziaria sono costituzionalmente vincolate. È anzi possibile abrogare i punti che non incidono direttamente sulla definizione del bilancio dello Stato.
I quattro «Sì» richiesti potrebbero modificare l’applicazione «ottusa» del principio dell’equilibrio di bilancio, eliminando alcune gravi storture introdotte dal parlamento italiano. Si vuole così eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea. Il referendum abroga la disposizione che prevede la corrispondenza tra il principio costituzionale di bilancio e il considdetto «obiettivo a medio termine» stabilito in Europa, una norma che non è imposta dal Fiscal compact. Vincendo il referendum, l’Italia potrebbe ricorrere all’indebitamento per realizzare operazioni finanziarie, un’azione oggi vietata. Infine, verrebbe abrogata l’attivazione automatica del meccanismo che impone tasse o tagli alla spesa pubblica in caso di non raggiungimento dell’obiettivo di bilancio, deciso dai trattati internazionali e non dall’Unione europea.
Al di là dei tecnicismi, il significato del referendum è politico. Vuole rompere l’embargo intellettuale e la paralisi politica creata dal commissariamento della politica economica da parte delle larghe intese e raccogliere un consenso diffuso sul fatto che i trattati europei vanno cambiati, non semplicemente applicati. Secondo l’economista Riccardo Realfonzo, la prospettiva indicata dal presidente del Consiglio Renzi, quella dell’«austerità flessibile», è inadeguata: «Va incontro ai Paesi in difficoltà senza però cambiare realmente il disastro prodotto dalle politiche ispirate all’”austerità espansiva” — afferma — Tra l’altro sono stati fatti errori enormi sui moltiplicatori fiscali. È scientificamente provato ormai che, ad esempio, un taglio da 10 miliardi di euro alla spesa pubblica implica una perdita di 17 miliardi di euro del Pil. Renzi vuole attenuare l’austerità invocando la flessibilità dei trattati, ma in realtà si è impegnato a raggiungere gli stessi obiettivi di lungo periodo stabiliti nei trattati. Per questo oggi abbiamo bisogno di una spinta dal basso per esercitare una pressione sul governo italiano e quelli europei. Bisogna dare un segnale forte».
Ad oggi hanno aderito alla campagna referendaria Sel e alcuni esponenti del partito Democratico. Per l’ex vice-ministro dell’economia Stefano Fassina (Pd), il referendum è l’unica strada «per salvare l’Europa» anche se il «Parlamento non è ancora consapevole della drammaticità della questione», così come lo stesso Renzi non ha «dato la sensazione di essere consapevole». Al referendum sarebbe interessato anche Gianni Cuperlo. L’ex Sel, Gennaro Migliore, passato al gruppo misto, lo sostiene. «Oggi si fa molta retorica sull’austerità – ha detto Giulio Marcon (Sel) – ma sulle scelte politiche non si fa un passo avanti. I trattati vanno cambiati, il referendum ci offre uno strumento per rilanciare il dibattito».