La Repubblica, 11 maggio 2015
ESATTAMENTE cinque anni fa, la Grecia di George Papandreou dichiarava bancarotta e chiedeva un piano di salvataggio all’Europa e al Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Dopo cinque anni di austerità, il 25% del Pil in meno, due piani di salvataggio da 240 miliardi, una ristrutturazione del debito pubblico in mano ai privati che ne ha falcidiato il 75% del valore, siamo ancora alle prese con il rischio di default. Prossima data critica: domani, quando scade una rata da 750 milioni al Fmi. Pochi sanno quanti soldi abbia veramente in cassa la Grecia. Se anche bastassero a superare indenni domani, non si arriverebbe comunque alla fine di luglio, quando dovrà aver rimborsato 2,6 miliardi al Fmi, 3,4 alla Bce, e rifinanziato 12 miliardi di titoli di Stato.
Il negoziato con la troika verte a sbloccare l’ultima tranche di 7 miliardi del piano di salvataggio del 2012. Basterebbero a superare l’estate, ma non risolverebbero niente.
SAREBBERO prevalentemente soldi della Troika per rimborsare crediti alla Troika, ma insufficienti a sostenere la Grecia fino al giorno in cui sarà in grado di tornare a finanziarsi autonomamente e stabilmente sul mercato. Un nuovo piano di salvataggio è inevitabile. Ma ancora non si è cominciato a parlarne.
Lo spettro di un default greco, e la probabile uscita dall’euro che ne deriverebbe, non sembrano però preoccupare i mercati: gli spread sul debito degli altri Paesi europei e delle loro banche sono ai minimi degli ultimi anni; i cali di Borsa dei giorni scorsi sono più dovuti ai timori di un rallentamento della ripresa americana e all’aumento dei tassi a lunga negli Usa e in Germania che potrebbe segnare l’inversione di un trend; e l’euro si è addirittura rafforzato. Prevale la convinzione che un accordo fra Grecia e creditori sia probabile, perché nell’interesse di entrambi, al di là delle bellicose dichiarazioni di facciata; e che se anche si arrivasse al default, non ci sarebbe contagio.
Vero: il default è la peggiore alternativa per tutti. In Grecia provocherebbe la corsa agli sportelli e la fuga dei capitali. Dall’inizio della crisi politica che ha portato Tsipras al governo, le banche hanno già perso 28 miliardi di depositi e stanno in piedi grazie alla Bce: a fronte di 220 miliardi di prestiti, hanno un’esposizione di 100 miliardi nei confronti della Banca centrale, a sua volta esposta per un’identica cifra verso la Bce. In caso di default, la Bce difficilmente potrebbe finanziare il sistema bancario greco, che sarebbe costretto a contrarre il credito innescando dissesti a catena. Sarebbe inevitabile imporre limiti ai prelievi dai conti per evitare la bancarotta delle banche; controlli sui movimenti di capitale; e il razionamento delle disponibilità di euro da destinare alle importazioni essenziali. Per pagare stipendi e fornitori, non avendo più fonti di finanziamento, lo Stato dovrebbe emettere cambiali proprie, creando di fatto una moneta parallela, che si deprezzerebbe rapidamente, gettando le basi per il ritorno alla dracma. La svalutazione e i dissesti farebbero crollare ulteriormente il reddito; e non avendo finanziatori, lo Stato non potrebbe neanche metter fine all’austerità. Prima di poter beneficiare dalla svalutazione della moneta, la Grecia subirebbe un’altra dura e prolungata recessione.
Ma la Grexit imporrebbe costi elevati anche ai creditori. In primis alla Germania. Tsipras ha trasformato una trattativa multilaterale coi Paesi europei creditori in uno scontro con la Germania, sulla quale ricadrebbe la responsabilità del default, facendone emergere il ruolo di potenza dominante in Europa. In questo modo la Germania azzererebbe il capitale politico tenacemente accumulato nel dopoguerra attraverso l’adesione a un’integrazione europea tesa proprio a limitare ogni tendenza egemonica tedesca. Dubito pertanto che nel momento cruciale, la Merkel si prenderà la responsabilità di rinnegare il principio che ha guidato tutti i suoi predecessori. Inoltre, per un’Europa già alle prese con l’Ucraina, una Grecia “ortodossa” che scivola verso l’area di influenza russa avrebbe un costo ingente.
Un default greco sarebbe un macigno anche per i conti pubblici europei: oggi tre quarti dei circa 300 miliardi di debito greco gravano, direttamente o indirettamente, sugli Stati europei. Mentre avrebbe un effetto economico risibile per gli investitori stranieri che ne detengono appena il 10%: per questo i mercati sono convinti che il rischio contagio sia limitato. Il pericolo è un altro: la ricomparsa del “rischio euro”. L’uscita della Grecia dall’euro, creando un pericoloso precedente, dimostrerebbe che la moneta unica non è irreversibile. Per quanto improbabile, l’eventualità che altri Paesi prima o poi ne escano, diventerebbe reale. Ed è dimostrato che i mercati tendono ad attribuire agli eventi rari una probabilità molto più elevata di quanto razionalmente giustificabile. Nessun può sapere quanto elevato sarebbe il premio per il “rischio euro” richiesto dai mercati in questo scenario. Meglio non rischiare. Un accordo è facile da immaginare. I creditori concedono alla Grecia di consolidare debito e interessi, rinviandone il rimborso di 50 anni. Non costerebbe nulla perché equivale ad ammettere la realtà dei fatti: il debito esistente non verrà mai rimborsato. In cambio la Grecia si impegna a contenere la crescita della spesa pubblica entro il gettito tributario. Contrariamente alla percezione comune, infatti, ha già attuato una massiccia ristrutturazione, riportando in avanzo sia il saldo con l’estero delle partite correnti, sia quello pubblico primario (prima degli interessi), per ben 12 punti percentuali del Pil. Con i due saldi in avanzo, non avrebbe bisogno di nuova austerità; e per completare l’aggiustamento basterebbero pochi aiuti aggiuntivi da Europa e Fmi.
Il nodo è politico: trovare anche un accordo su riforme del mercato del lavoro, delle pensioni e della pubblica amministrazione, che permettano a Tsipras di salvare la faccia; alla Germania e alla Bce di continuare a premere per riforme analoghe nell’Eurozona, in primis Francia e Italia; senza irritare Irlanda, Spagna e Portogallo che hanno già implementato queste riforme con successo, ma a caro prezzo.
Ma, se una soluzione è dietro l’angolo, perché la trattativa è così difficile? Perché per la prima volta le controparti della rinegoziazione del debito di uno Stato sovrano sono altri Stati sovrani. Di solito è il mercato, che applica la logica della convenienza economica: la più semplice per trovare un punto di equilibrio. Nel caso della trattativa con la Grecia, invece, l’accordo va trovato con la logica delle convenienze politiche, poco efficienti per le questioni economiche. In fondo, nessuno si sorprende se i tempi necessari per stipulare un Trattato internazionale sono biblici rispetto a quelli per accordarsi in una transazione tra privati.