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Slavoj ?i?ek
Quando la politica si affida alla paura
2 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
“Ciò che emerge sempre più come il diritto umano fondamentale nella società tardo-capitalistica è il diritto a non essere molestato”. Dala Repubblica del 6 novembre 2007

Una volta che si rinuncia alle grandi cause ideologiche, ciò che resta è solo l’amministrazione efficiente della vita... o quasi solo questo. In altre parole, quando il livello di base della politica è costituito dalle attività depoliticizzate e socialmente oggettive di un’amministrazione competente e di un coordinamento degli interessi, l’unico modo per introdurre passione in questo campo, per mobilitare attivamente la gente, è la paura, costituente fondamentale dell’odierna soggettività. Per questa ragione la biopolitica è in definitiva una politica della paura, incentrata sulla difesa contro potenziali persecuzioni o molestie.

E’ questo che distingue una politica di emancipazione radicale dal nostro status quo politico. Qui non stiamo parlando della differenza tra due visioni, o tra due insiemi di assiomi, ma tra la politica basata su una serie di assiomi universali e una politica che rinuncia alla dimensione costitutiva stessa di ciò che è politico, affidandosi alla paura come ultima risorsa di mobilitazione: paura degli immigrati, del crimine, dell’empia depravazione sessuale, di un eccesso di Stato, con il suo fardello di tasse pesanti, delle catastrofi ecologiche, paura delle molestie. Il politicamente corretto è la forma progressista esemplare della politica della paura. Una siffatta (post) politica si basa sempre sulla manipolazione di un ochlos, o moltitudine, paranoide: è la terrorizzante mobilitazione di un popolo terrorizzato.

Così il grande evento del 2006 è stata l’adozione generalizzata delle politiche contro l’immigrazione, con il taglio del cordone ombelicale che le legava ai piccoli partiti dell’estrema destra. Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, nel nuovo spirito di un’orgogliosa rivendicazione di identità culturale e storica, ora i partiti più importanti trovavano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti, e come tali devono adattarsi ai valori culturali che definiscono la società che li ospita: «E’ il nostro Paese, o lo ami o te ne vai».

L’odierna tolleranza progressista verso gli altri, il rispetto della diversità e l’apertura verso di essa, è contrappuntata da una paura ossessiva di essere molestati.

In breve, l’Altro va benissimo, a patto che la sua presenza non sia invadente, a patto che questo Altro non sia veramente un altro, la tolleranza coincide con il suo opposto. Il mio dovere di essere tollerante verso l’altro significa di fatto che non dovrei avvicinarmi troppo a lui, invadere il suo spazio. In altre parole, dovrei rispettare la sua intolleranza verso un mio eccesso di prossimità. Ciò che emerge sempre più come il diritto umano fondamentale nella società tardo-capitalistica è il diritto a non essere molestato, che è il diritto a rimanere a una distanza di sicurezza dagli altri.

Nella biopolitica postpolitica ci sono due aspetti che non possono che appartenere a due aree ideologiche opposte: quella della riduzione degli essere umani a "nuda vita", a Homo sacer, il cosiddetto essere sacro, l’oggetto delle competenze specialistiche di chi se ne occupa ma è provo, come i prigionieri di Guantanamo e le vittime dell’Olocausto, di qualsiasi diritto; e quella del rispetto per l’Altro vulnerabile, un rispetto portato all’estremo attraverso un atteggiamento di soggettività narcisistica che percepisce il sé come vulnerabile, costantemente esposto a una quantità di potenziali "molestie"». Può esistere un contrasto più netto di quello tra il rispetto per la vulnerabilità dell’Altro e la riduzione dell’altro a "nuda vita" regolata da una competenza amministrativa? Ma se questi due atteggiamenti scaturissero nientemeno che da un’unica radice? Se fossero due aspetti di un unico atteggiamento di fondo? Se coincidessero con quello che si ha la tentazione di definire la versione contemporanea di quel "giudizio infinito" hegeliano che afferma l’identità degli opposti?

Ciò che accomuna questi due poli è proprio il sottostante rifiuto di una qualsiasi causa superiore, l’idea che il fine ultimo della vita sia la vita stessa. E’ per questo che non c’è contraddizione tra il rispetto per l’Altro vulnerabile e l’essere disposti a giustificare la tortura, espressione estrema del trattamento degli individui come Homines sacri.

Nella Fine della fede, Sam Harris difende il ricorso alla tortura in casi eccezionali (ma ovviamente chiunque difenda la tortura lo fa come misura estrema; nessuno sosterrebbe seriamente che si può torturare un bimbo affamato che ha rubato una barretta di cioccolata). La sua difesa si basa sulla distinzione tra l’istintiva avversione che proviamo all’idea di assistere con i nostri occhi alla tortura o alla sofferenza di un individuo e la conoscenza astratta di una sofferenza di massa; per noi è molto più difficile torturare un individuo che ordinare a distanza lo sgancio di una bomba che provocherebbe la ben più dolorosa morte di migliaia di persone.

Dunque tutti noi siamo intrappolati in una sorta di illusione etica, analoga alle illusioni sensoriali. La causa ultima di questa illusione è data dal fatto che, nonostante la nostra capacità di ragionamento astratto si sia sviluppata enormemente, le nostre reazioni etico-emotive sono ancora condizionate da antichi e istintivi moti di compassione di fronte alla sofferenza e al dolore di cui siamo testimoni diretti. E’ questa la ragione per cui molti di noi trovano più ripugnante sparare a qualcuno a bruciapelo che non provocare la morte di mille persone che non possiamo vedere premendo un bottone.

Non sorprende che Harris faccia riferimento ad Alan Dershowitz e alla sua legittimazione della tortura. Per porre fine a questa sensibilità, condizionata dall’evoluzione alla manifestazione fisica della sofferenza altrui, Harris immagina un’ideale "pillola della verità", una tortura efficace equivalente al caffè decaffeinato o alla Diet-Coke: «un farmaco in grado di fornire sia gli strumenti per torturare che quelli per nascondere perfettamente la tortura» –introducono la logica tipicamente postmoderna della cioccolata lassativa. La tortura immaginata da Harris è come il caffè decaffeinato: ci dà il risultato voluto senza doverne subire gli spiacevoli effetti collaterali. Al famigerato istituto Serbskj di Mosca, la struttura psichiatrica del Kgb, fu inventato proprio un farmaco di questo tipo per torturare i dissidenti: un’iniezione vicino al cuore che rallentava il battito e provocava un terrificante senso d’angoscia al prigioniero. A un osservatore esterno sembrava che il prigioniero sonnecchiasse, mentre in realtà stava vivendo un incubo.

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