E' l'estate del 1984, è mattina, nell'atrio in ombra d'una vecchia casa di Lenola, appoggiata sui dossi del basso Lazio che nascondono il mare di Sperlonga. Due uomini sono intenti al loro lavoro, senza parlare. Il più anziano è seduto su una poltrona, corregge delle bozze, ogni tanto alza un braccio dietro la testa, pensieroso, un gesto abituale. Davanti a lui su un cavalletto, che come la poltrona non cambia posto per tre mesi, un uomo più giovane lo ritrae su grandi fogli di carta spessa, due metri per tre. Nell'atrio pochi passano, fuori la calura sale. A mezzogiorno i due deporranno fogli e colori e scenderanno al mare, che non è proprio a tre passi. Steso sulla sedia a sdraio o sulla sabbia l'uno, l'altro lo segue e annota su un taccuino i gesti del riposo, a ciascuno peculiari, smemorati, fuori dal tempo. Ma per la posa, se tale si può chiamare una lunga osservazione sul modo di trasformare in immagini la persona che legge davanti a sé, sono le ore tranquille del mattino. Dieci (o undici?) di questi grandi cartoni del 1984 sono esposti qui per la prima volta, a venti anni da quelle mattinate. L'uomo ritratto è Pietro Ingrao, allora era alla soglia dei settanta anni, ancora giovane e teso, conchiuso in se stesso. Sembra colto in un passaggio. Alle sue spalle oltre quaranta anni al vertice del Partito comunista italiano e prima nella Resistenza, poi all' Unità, poi in segreteria, poi alla presidenza della Camera (dove anche vive per essere più vicino al lavoro ma in pochi spazi e imbarazzato di farsi servire, soltanto la domenica uno sciame di nipotini corre strepitando nelle brutte sale dorate). Battuta tutta Italia fra riunioni e comizi, si porta più facilmente in una fabbrica che non si fermi con la stampa di Montecitorio. L'estate torna a Lenola (...). Il fascino che esercita su migliaia e migliaia di militanti viene dall'essere il dirigente che più ascolta, quello che più si interroga, più problematizza e assieme il più assolutamente sicuro. Bello è ascoltarlo in una sala e in una piazza o in un congresso, perché dirà qualcosa che nessun altro ha detto, andrà più a fondo, indicherà una frontiera, avanzerà nella critica - simile a una marea che ritirandosi lascerà le sabbie più feconde, ma il litorale intatto. Una sola volta, all'XI Congresso, l'onda Ingrao s'è alzata troppo e fin la base più adorante si è spaventata e ha lasciato che si rovesciasse contro di lui. Ma sono passati quasi venti anni. Se ne ha patito, non lo dirà. Ingrao è l'alterità e la fedeltà, ben strette assieme, è tutto del suo partito, pretesa ingenua e crudele. Ingrao è un comunista e non muterà, questo è sicuro ma da quella estate in poi si concederà di scrivere anche per sé e in suo solo nome (...).
Enrico Berlinguer è mancato un mese prima, stroncato da un male su un podio di Padova, mentre parlava di un referendum che si sarebbe perduto, ma non ha avuto il tempo di percepirlo. Il futuro del Pci è più incerto. Quell'estate Ingrao non può immaginare quanto. Il decennio che ha davanti e dovrebbe essere lo sfondo di una acquietata maturità, cova veleni. Dal 1984 al 1994 al 2004 precipitano le perdite, anche dei privati affetti, e quelle pubbliche rinviano a domande raggelanti: crolla il Muro di Berlino, e poi l'Unione Sovietica, e poi i partiti comunisti, poi quello italiano cambia nome e non solo, e tutto questo nel rivelarsi d'una putrescenza nazionale nella quale sprofonda la prima repubblica. Ingrao tenterà di sbarrare la svolta del Partito in un congresso che perderà, esiterà a lungo davanti alla prospettiva di separarsene prima che accada il peggio. Ma il peggio arriva con la guerra, la guerra che torna, era impensabile. Ingrao getta se stesso fra la guerra del Golfo e la tentazione del partito di aderirvi. E infatti frena. Ma è l'ultima volta che lo fa. Da un partito cambiato in radice uscirà poco dopo, e solo (...).
In questi ritratti Alberto Olivetti traduce un Pietro Ingrao in concentrazione, sospensione, dubbio. Stati della mente e del cuore, curioso «vero». Concentrata è l'immobilità della testa, il suo solido stare sulle spalle. Non distratta dai lineamenti del volto (salvo in un caso, più giovane e come imbronciato), nascosto e rivelato da un tessuto di colori congiunti e cangianti, stesi a pennellate fini che sembrano un andare e tornare su di sé. Concentrazione è l'imporsi di quel cranio, assolutamente il marchio Ingrao, come un nodo cui è appeso il tutto il resto. Perché sospeso è quel riposo del corpo quanto il cranio è immobile e concentrato, il pittore lo fa fluire con assoluta libertà e lo configura in molti modi - ora è una benevola divinità fluviale e muschiosa di verde con la mano che si perde lontano, ora è il nervoso raccogliersi su se stesso d'un corpo giovane come un anemone di mare violetto, ora si proietta fuori da sé in un gesto subitaneo e fissato, ora si stende e contorce in una sagoma nera e frastagliata. Il colore è sempre puro, pulito. Concentrazione e sospensione sono la forma di una umana medusa che si estende e ritrae «in presenza» del pittore e della sua mano. Mentre il dubbio folgora nell'apparire d'un occhio, anzi di un'orbita fosforescente che ti inchioda. Perché il dubbio di Ingrao non è una fuga agevole dal mondo, come perlopiù praticato oggi, è una domanda lancinante sul come starci. Dubbio è anche solitudine, e sola è la figura che campeggia in tutti i ritratti, senza sfondi, senza parlare che con sé e in un vuoto. Sono raramente quiete, queste immagini di momenti di quiete. Questa inquietudine, quella di un agire sempre interrogandosi e di un interrogarsi sempre per agire, è il segno che in molti di noi Pietro Ingrao ha lasciato una volta per sempre. Lo «spazio della pittura» di Alberto Olivetti è, stavolta, questo.