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Carlo Petrini
Quando il bene comune diventa una merce
13 Maggio 2010
Clima e risorse
Mentre il governo svende i beni comuni un’onda sembra sollevarsi per impedire la privatizzazoone dell’acqua. Un segnale di una resistenza che può vincere. La Repubblica, 6 maggio 2010

I beni comuni devono rimanere fuori dalle logiche di mercato. Possono essere gestiti solo nell’interesse del territorio cui appartengono, del suo sviluppo e dei suoi abitanti. Guardando al passato si trovano soluzioni di grande modernità, come quelle che le comunità hanno adottato da sempre per amministrare i boschi o gli alpeggi Quando il bene comune diventa una merce

Circa 250 mila cittadini hanno firmato per il referendum "L’acqua non si vende" che, senza scendere in tecnicismi, ha lo scopo di fermare la privatizzazione dell’acqua pubblica. Io sto con loro, firmo; non solo, ma sono a favore delle proposte che stanno arrivando da più parti per rendere effettiva la possibilità delle amministrazioni locali di dichiarare il servizio idrico «privo d’interesse economico», escludendolo così dal pacchetto di servizi da "liberalizzare" secondo il decreto Ronchi. Questo decreto, infatti, consente la privatizzazione degli acquedotti e dei vari servizi idrici collegati, previa gara d’appalto. Così facendo si consentirà a potenti gruppi di interesse economico di trattare l’acqua come fosse una qualunque merce, e quindi di farci pagare non tanto un servizio, come oggi accade in situazioni di gestione pubblica, ma il bene stesso, come se esso appartenesse a chi ce lo "vende". Il privato ha come fine quello di fare utili, le strade possono essere due: aumentare i prezzi o risparmiare sugli investimenti.
Sono contro la privatizzazione dell’acqua non perché sia contro la privatizzazione tout court, ma perché il modo di procedere di questo decreto sta consegnando le reti idriche nelle mani di capitalisti senza imporre loro nessuna regola che li obblighi a proteggere l’essenza di quello che è un bene comune.

Questo è l’acqua: una cosa di tutti. Una cosa che tra l’altro comincia a scarseggiare a livello planetario, e quindi fa gola a livello economico. Non va semplicemente comprata e venduta però, va gestita affinché tutti ne abbiano, perché non ci siano sprechi, perché non venga inquinata, o usata per fini industriali e rimessa in circolo senza essere depurata, perché ce ne sia ancora per tanto tempo.


Vorrei però che fosse chiara una cosa: la ragione dell’avversione alla privatizzazione non risiede in una presa di posizione aprioristica contro il privato. In linea teorica nulla vieterebbe una corretta gestione dell’acqua da parte di un privato che se ne assumesse il servizio. Il problema è che una corretta gestione di un bene comune può essere realizzata solo da un attore fortemente radicato sul territorio, che si ponga come obiettivo lo sviluppo di quel territorio, la sua protezione e quella dei suoi abitanti e dei loro diritti. Ed è molto difficile che questo avvenga affidando la gestione dell’acqua anziché a enti locali a società di capitali o a banche.

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Lcacqua però è soltanto lo spunto per fare una riflessione più ampia. Perché qui stiamo perdendo di vista una cosa intoccabile: i beni comuni devono esulare dalle logiche di mercato. Il che non significa che ci sia una formula esatta per la loro gestione. Intendo dire che non è detto che debba per forza essere lo Stato a farsene carico, deve invece poter partire una reale condivisione: che sia proprietà collettiva a gestione privata, che sia tutto pubblico o che sia un mix delle due cose non ha importanza, perché ci sono formule alternative, vecchie e nuove. Stiamo vendendo o svendendo tutto, dando in gestione a chi ha come unico fine l’accaparramento, mentre certe cose non si dovrebbero toccare. Ricordo un grande del Barolo, l’indimenticato Bartolo Mascarello, che si scagliò contro la curia di Alba, rea secondo lui di aver venduto a dei privati delle vigne storiche, vigne che erano a "beneficio collettivo", tra i migliori cru di Langa.

È solo un esempio delle tante risorse comuni che la nostra Italia sta perdendo, e che avevano resistito anche alle spinte più privatistiche tipiche dell’Ottocento e Novecento. "Vicinie", "partecipanze", "comunaglie", "ademprivi", "società degli originari", demani comunali: boschi, terreni agricoli, spiagge e coste, pascoli, terreni a uso civico che per secoli erano a disposizione di tutti, di cui la comunità si faceva carico per mantenerli e sfruttarli con senso del limite e garanzie per il futuro. Proprietà collettive o insieme di risorse naturali gestite dal Comune, dalla parrocchia, da gruppi di famiglie, reti di vicinato e associazioni, secondo regole complesse che risalgono in molti casi anche al Medioevo. Sono quelli che inglese si chiamano "commons". Ci sono ancora esempi in Emilia, con le partecipanze agrarie che hanno origine ai tempi delle prime formazioni comunali e ancora oggi si trasmettono per discendenza diretta di padre in figlio: enti privati di diritto pubblico che hanno un regolamento per l’assegnazione (a rotazione) delle terre per il diritto d’uso e di coltivazione. Oppure pensiamo alle regole che le comunità si sono sempre date per la raccolta di erba, frutti di bosco, funghi e legname nei terreni comuni.

Perché dobbiamo ridurre tutto a una dicotomia tra pubblico e privato, che è stucchevole quasi quanto quella tra destra e sinistra? 
Guardo al passato e vedo soluzioni di grande modernità, che potrebbero aiutarci nella gestione dell’acqua, nel ripristino dei pascoli, nel mantenimento dei boschi e degli alpeggi (che stanno tra l’altro diventando sempre più terreno di sfruttamento a danno dei malgari, i quali ogni anno si vedono aumentare arbitrariamente gli affitti per basi d’asta dove spesso corrono da soli, perché gli unici rimasti a fare quel lavoro). Guardo al passato e vedo geniali soluzioni per lo sfruttamento locale delle biomasse (sfalci e legnami da buttare); luoghi dove costruire orti collettivi gestiti magari dai pensionati a beneficio della comunità; un paesaggio difeso e valorizzato; reti idriche locali, all’avanguardia ed efficienti, che garantiscono acqua a tutti, a prezzi tendenti allo zero, se non del tutto gratis.


Bisogna ridare dignità giuridica a queste antiche forme di gestione, perché realizzano ciò che né il pubblico puro, né il privato puro sono in grado di garantire: i beni cui tutti hanno diritto, le risorse delle nostre terre, mari e acque. Ci metto anche il cibo, perché la stessa dignità va riconosciuta a forme di partecipazione collettiva in tema di cibo: che cosa sono i gruppi d’acquisto solidali, gli orti collettivi urbani o il modello della community supported agriculture nato negli Stati Uniti, in cui si prevede l’acquisto anticipato di tutta la produzione di un agricoltore da parte di un gruppo di cittadini che poi si vedono recapitare a casa regolarmente, perfettamente maturi e in stagione i prodotti? Sono cose né pubbliche né private, né leghiste né comuniste, né passatiste né utopiche. Modelli che funzionano, collettivi e innovativi, al di là di schemi stantii che ormai hanno solo più questi scopi: fanno arricchire qualcuno, scarseggiare le risorse di tutti, perdere la nostra libertà, il senso di far parte di una comunità e di avere potere sulle nostre stesse vite, lasciandoci da soli, a pagare bollette sempre più salate.

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