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Bruno Tinti
Province, si fa presto a dire abolizione
5 Luglio 2013
Articoli del 2013
Qualche giornalista (e qualche giornale) esce dal coro e adopera ragione e conoscenza Sebbene il motivo per criticare l'abolizione delle province non sia prevalentemente nel lavoro.

Qualche giornalista (e qualche giornale) esce dal coro e adopera ragione e conoscenza Sebbene il motivo per criticare l'abolizione delle province non sia prevalentemente nel lavoro.

Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2013

Che non si potessero abolire le Province con un decreto legge è evidente: sono Enti previsti dalla Costituzione, serve una legge costituzionale; che significa doppio passaggio in Parlamento, eventuale referendum, insomma un paio d’anni ed esito incerto. Ma non c’è da strapparsi i capelli: i risparmi di spesa conseguenti all’abolizione non sono granché.

Il problema non è chiamare le cose con un nome diverso; è cambiarle. Se le Province devono davvero essere abolite, questo vuol dire che quello che fanno è inutile. Se invece inutile non è, tanto che è necessario istituire settori di Regioni e di Città metropolitane che facciano le stesse cose che prima facevano le Province, conservando lo stesso numero di dipendenti e di strutture; allora che senso ha abolirle? Quello che si risparmia è qualche presidente e consigliere provinciale in meno. Il che è una bella soddisfazione sul piano politico, ma poco produttiva sul piano economico: a quanto ammontano gli stipendi risparmiati? Intendiamoci: una riduzione della spesa pubblica ottenuta con il taglio di costi della politica è sempre una buona cosa e certamente rincuora i cittadini; ma non ha effetti decisivi sulla crisi. Che invece ci sarebbero se, oltre ai politici, fossero eliminati (in realtà significativamente ridotti in proporzione alle effettive esigenze di servizio) i dipendenti pubblici. E qui siamo nei guai.

Le Province italiane contano circa 60.000 dipendenti; diciamo dunque da 40.000 a 50.000 famiglie (ci saranno pure dipendenti single). Che succede se 200.000 persone mal contate si trovano, dall’oggi al domani, senza mezzi di sussistenza? Che ne è di gente che, il 27 del prossimo mese, non avrà i soldi per pagare il mutuo o l’affitto, per fare la spesa, per riscaldarsi in inverno? Può il Paese far fronte a un’emergenza del genere? E il caso delle Province è solo uno: in Italia gli impiegati pubblici sono 3 milioni e mezzo. Quanti sono inutili? E chi lo sa? Ma il costo di questo ignoto numero di persone, se eliminato, avrebbe importanti effetti positivi sull’economia italiana; e, contemporaneamente, ne avrebbe di disastrosi sul piano sociale e politico. In Grecia ci sono 750.000 dipendenti pubblici, un numero pari a quelli impiegati nel settore turistico che, in quel Paese, significa il 16 % del Pil. Per essere ammessa al piano di salvataggio, la Grecia ha ridotto gli stipendi dei dipendenti pubblici del 20% e ha promesso di ridurne il numero di un quinto.

Se in Italia si applicassero le stesse misure, si dovrebbero licenziare circa 700.000 dipendenti pubblici con conseguenze disastrose sul piano sociale e politico: altro che Alba Dorata, il partito neofascista greco.

Ecco perché l’eliminazione delle Province e la sentenza della Corte costituzionale che le ripristina sono un falso problema. Il problema reale è sempre lo stesso: il lavoro deve essere produttivo; che vuol dire fornire le risorse necessarie per remunerare il lavoratore e garantire un utile; se così non avviene si trasforma in un costo per la collettività. Ma in un Paese in cui “diritto al lavoro” significa dovere per lo Stato di fornire a tutti un posto di lavoro, anche quando ciò è economicamente impossibile, la cosa è trascurabile. Per questo siamo in bancarotta.

Vedi in proposito l'eddytoriale n. 159

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