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Andrea Garibaldi
Province accorpate, il rebus delle rivalità
3 Maggio 2012
Articoli del 2012
Torna alla grande il tormentone di quella specie di antipolitica istituzionale che vorrebbe buttare nel cestino tutto ciò che non è contabilità. Corriere della Sera, 3 maggio 2012, postilla. (f.b.)

ROMA — Una delle ipotesi è questa, che la provincia di Lecco finisca accorpata con quella di Como, e di conseguenza dominata, visto che Como comprende quasi 600 mila abitanti e Lecco si ferma a 340. Ma si può? Lecco è provincia da vent'anni solamente e mal sopporterebbe di riunirsi all'altro ramo del lago. Il ramo di Manzoni che si sottomette a quello di Alessandro Volta? Piuttosto, i lecchesi preferirebbero legarsi a Sondrio, che con i suoi 183 mila abitanti finirebbe in posizione gregaria. Le due possibilità convivono nel piano di lavoro che i tecnici del ministero della Pubblica amministrazione e dell'Interno stanno elaborando. Il tema è annoso, ha prodotto fiumi di parole, non si è mai tramutato in realtà: il taglio delle 109 province italiane. Un altro «matrimonio» impossibile sarebbe quello di Piacenza (290 mila abitanti) con Parma (442 mila). Furono assieme, per tre secoli, ma i parmigiani dicevano «Ducato di Parma e Piacenza (che anche se non c'è facciamo senza)». A Parma hanno sempre guardato verso Parigi, nobilitati dalla Certosa di Stendhal, a Piacenza (in provincia è nato Pier Luigi Bersani, segretario pd) si son sempre sentiti più lombardi che emiliani. Andiamo avanti. Enna (172) con Caltanissetta (272), i due capoluoghi di provincia più alti della Sicilia. Ma qui bisognerebbe superare la potestà delle Regioni a statuto speciale sulle autonomie locali...

Il governo Monti ha già dato un bel fendente. Col decreto «salva Italia», le Province (ultimati i mandati in corso) sono state abbassate a enti di secondo livello. Abolite le giunte. Consigli provinciali eletti non dai cittadini, ma dai consigli comunali interessati. Competenze da trasferire a Regioni e Comuni entro la fine dell'anno. Ora siamo agli atti successivi. Presso la commissione Affari costituzionali della Camera si discutono le modifiche agli articoli 114 e 133 della Costituzione. Da una parte, le Province potrebbero sparire dal breve elenco degli enti che costituiscono la Repubblica. Dall'altra, verrebbero cancellate (o accorpate) le province sotto un certo numero di abitanti. In questa fase il Dipartimento riforme istituzionali del ministro per Pubblica amministrazione, Patroni Griffi, e il ministero dell'Interno di Anna Maria Cancellieri forniscono idee e documenti al Parlamento. Le ipotesi principali all'attenzione della commissione sono tre: salvare le province con più di 350 mila abitanti, quelle con più di 450 mila, o addirittura solo quelle con 500 mila abitanti. Nel primo caso resterebbero in vita 58 province e le prime «non elette» sarebbero Arezzo (349.651 abitanti) e Livorno (342.955). Fuori anche Trieste, Siena, Campobasso, Grosseto, Prato... Nella seconda lista ci sono invece 39 province, lasciando a terra Brindisi, Potenza, Catanzaro, Siracusa. Infine, l'ipotesi più drastica salverebbe appena 36 province (qui stiamo inserendo anche quelle delle Regioni a statuto speciale), che includono le grandi città, comprese Udine, Reggio Emilia, Latina, Pavia.

Lo scenario disegnato dai tecnici ministeriali è drastico in ogni caso, se si pensa che suscitò scandalo, esattamente due anni e poi un anno fa, l'idea del ministro Tremonti di sforbiciare tutte le province al di sotto dei 220 mila abitanti o dei 300 mila abitanti, misura che ne avrebbe conservate in attività ben 86, oppure 70. Di fronte alle ribellioni degli esclusi, Berlusconi rinviò a miglior data. Nel frattempo in Italia sono andate avanti le rivendicazioni per nuove province, Gela, Caltagirone, anche la Ladinia, promossa dalla Lega Nord. Ora però nel clima generale di risparmi sulla spesa pubblica, perfino l'Unione province italiane ha presentato (febbraio scorso) un testo che propone l'autoriduzione da 109 a 60.

Le decurtazioni proposte dal governo sono accompagnate — come abbiamo visto — dalla possibilità di effettuare accorpamenti fra province contigue, che raggiungerebbero il «tetto» con la somma degli abitanti. Oltre ai difficili connubi fra Lecco e Como o fra Parma e Piacenza, ce ne sono altri immaginati nei ministeri. Con alcuni dolorosi passi indietro. Prendiamo Lodi. La Provincia è giovane, nata nel marzo '92, dal distacco di 61 Comuni da Milano. Ora quel che si prospetta sarebbe l'accorpamento di Lodi (228 mila abitanti) a Cremona (364 mila). Meglio tornare sotto l'ala di Milano, allora?

In Consiglio dei ministri, lunedì, il governo ha portato un sistema cartesiano nel quale si dimostra che le Province di maggiori dimensioni hanno spese per abitante notevolmente più basse delle Province più piccole. In Sardegna (statuto speciale) ci sono nove province per un milione e mezzo di abitanti. In Molise due province per 300 mila abitanti. Un terzo delle Province, secondo il ministero dell'Economia, spende più del 40 per cento del bilancio in stipendi per i dipendenti. Quanto si potrebbe risparmiare ancora non è chiaro, visto che il personale verrebbe riassorbito nei ranghi dello Stato.

Postilla

L’articolo ha un grande pregio: quello di riassumere la montagna di miserie che sta dietro a lustri di separazioni e cosiddette “riorganizzazioni” territoriali amministrative, che col territorio avevano (lo si sapeva, lo si intuiva, ora è evidente) poco o nulla a che fare. Nell’incipit si cita Como-Lecco: per caso mi è capitato di risiedere vent’anni in provincia di Como ma nel territorio di quella che è l’attuale circoscrizione di Lecco, e di ascoltare le infinite rivendicazioni di interessi particolari che poi hanno condotto alla separazione. Economia, servizi, e sotto sotto la solita “rappresentanza”, ma rappresentanza di cosa? È sacrosanto avere voce, ma proprio per considerare il peso relativo di queste voci si deve valutare quanto un territorio “guarda a Parigi”? E un altro adiacente invece preferisce, che so, guardare all’industria conserviera? Chi ha anche solo scorso il dibattito alla Costituente sulla riorganizzazione territoriale dello Stato non poteva fare a meno di imbattersi in incredibili sparate e meschinità, che nel nome della “rappresentanza democratica” tracciavano piccoli confini feudali di interessi. Un criterio che poi si è gonfiato a dismisura, sino alla smodata reazione di qualche mese fa, quando l’ipotesi di abolire del tutto le Province aveva incontrato una specie di spontaneo entusiasmo popolare, tanto inconsapevolmente suicida quanto comprensibile. Val la pena forse ricordare come parallelamente ai lavori della Costituente, la nascente urbanistica democratica italiana tramite Giovanni Astengo provava ad elaborare criteri di riorganizzazione dello Stato per circoscrizioni non basate (solo) sugli equilibri di consenso stabiliti dagli “agenti di sviluppo” (leggi: ras locali), ma su basi geografiche, storiche, socioeconomiche meno aleatorie. Qualcuno riuscirà a convincere gli attuali ragionieri contabili che stanno gestendo al momento la cosa pubblica, a investire un po’ di metodo in quella direzione? Le conoscenze di sicuro non mancano (f.b.)

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