Democrazia annacquata
di Guglielmo Ragozzino
Ieri, a metà giornata, la Camera dei deputati ha votato in segreto contro l'arresto, giusto o sbagliato che fosse, di Nicola Cosentino, un suo membro. Sei mesi orsono, 26 milioni di voti nel referendum sul «legittimo impedimento», avevano stabilito che tutte le persone sono uguali davanti alla legge. Per il Parlamento, Cosentino è dunque più uguale degli altri. Poche ore prima la Corte Costituzionale aveva reso noto la bocciatura della richiesta di referendum abrogativo sulla attuale legge elettorale, quella nota come «porcellum», sostenuta da 1,2 milioni di cittadini. Il giorno prima il governo autorevolmente rappresentato da Mario Monti aveva esposto «le norme generali sulle liberalizzazioni e tutela dei consumatori», a supporto della precedente manovra del 6 dicembre «Salva Italia». Lo aveva fatto a Berlino, ottenendo l'invocato plauso di Angela Merkel, la Cancelliera. Non una parola sui referendum sull'acqua.
Il senso di fastidio dei poteri sui referendum idrici si esprime in una frasetta: «Il presente articolo 18 non si applica al servizio idrico per il quale rimangono ferme le competenze dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas...» Ecco chiamata in causa una quarta Autorità centrale.
Camera, Corte, governo mostrano di non tenere in considerazione la volontà popolare, giusta o sbagliata che sia. Il referendum sull'acqua, preparato su migliaia di tavoli, in una discussione pubblica diffusa è malvisto da chi è convinto che l'acqua sia buona solo da vendere e che venderla sia un grande affare, il più grande del secolo, purché ritorni nella disponibilità dei gruppi multinazionali. I soliti 26 milioni - noi - sono folclore italico, non certo un modello per i popoli della Terra.
Nei decreti, quello di dicembre e quello di gennaio, sono esposti molti provvedimenti che, presi tutti insieme, trasformano il nostro paese in un modello diverso, nel quale la maggioranza dei cittadini, ancor di più gli stranieri che si sono uniti a noi, vivrà una vita più grama. Il motivo è la crisi, ora declinata nell'astrazione dello «spread», una spirale che potrebbe inghiottire tutto quello che abbiamo. Difendere il «porcellum» e Cosentino; disprezzare o deridere, a Berlino, la volontà popolare: in che paese siamo finiti?
Il governo ci vuol convincere a cedere pezzi di salario, di pensioni, di democrazia, di libertà: il Parlamento vota tutto. È una stretta implacabile, conseguenza della crisi; oppure è un veritiero caso di «Shock Economy». Naomi Klein potrebbe prendere in considerazione l'Italia se mai scrivesse una nuova edizione del suo libro. Travolti dalla crisi, terrorizzati dal gorgo spaventoso detto «spread», dovremmo accettare una democrazia a scartamento ridotto e soprattutto consentire che le libertà sindacali e sociali che l'articolo 18 della legge 300 del 1970 rappresenta per tutta la popolazione, vadano in fumo.
Da quarant'anni infatti, nel bene e nel male, la popolazione vi riconosce un principio generale di eguaglianza e giustizia. Per questo è affezionata a quel che è stato e significa ancora; sarà arduo scippare l'art 18.
Una barbarie giuridica incostituzionale
di Alberto Lucarelli
Nel testo della bozza di decreto legge sulle liberalizzazioni circolato in queste ore suscita particolare sconcerto la disposizione di cui all'art. 20. Tale disposizione, marginalizzando l'ambito di applicazione dell'azienda speciale ex art. 114 del testo unico sugli enti locali, rischia di vanificare di fatto il vittorioso esito dei referendum dello scorso giugno contro la privatizzazione dell'acqua, in attuazione del quale il Comune di Napoli ha (primo in Italia) provveduto a trasformare la natura giuridica del soggetto incaricato di erogare il servizio idrico integrato.
In primo luogo, nella fattispecie, si segnala un abuso dello strumento giuridico del decreto legge, con il quale si procede ad un riforma ex abrupto di interi settori dell'economia nazionale (servizi pubblici locali, commercio, trasporti, professioni), in assenza di adeguata meditazione, nonché dei requisiti previsti dall'articolo 77 Cost. Si realizza, in tal modo, per il tramite di un illegittimo ricorso alla decretazione d'urgenza, un tradimento della volontà popolare espressa a seguito dei referendum.
Il decreto in oggetto, così come già l'art. 4 del decreto di Ferragosto, ripropone la medesima disciplina contenuta nell'art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e successivamente abrogato tramite lo strumento offerto dall'art. 75 della Cost. La giurisprudenza costituzionale ha avuto più volte modo di affermare l'illegittimità della riproposizione sostanziale di normative abrogate con referendum. Lo stesso art. 18 della bozza di decreto ("Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali"), riaffermando di fatto una disciplina abrogata (e limitandosi semplicemente ad eliminare i riferimenti al servizio idrico), comporta un'indebita restrizione dell'ambito di applicazione del referendum (che ha avuto ad oggetto l'intero art. 23-bis e non certo il solo servizio idrico). Anche volendo ammettere la legittimità delle parti del decreto richiamate, la disciplina dei servizi pubblici locali che ne deriva appare decisamente sbilanciata in favore di modi di gestione privatistici, in assoluta violazione del diritto comunitario.
Infine, del tutto ambigua è la riconducibilità del servizio idrico integrato al novero dei servizi di interesse economico generale, attesa la peculiare natura del bene acqua, strettamente collegato a diritti fondamentali (si pensi al diritto alla salute). È evidente che ci troviamo di fronte ad un subdolo disegno eversivo di disarmo del diritto pubblico e delle garanzie ad esso collegate, concepito ad arte per neutralizzare l'imponente movimento politico e culturale sorto in questi mesi a tutela dei beni comuni.
Le grandi manovre dei privatizzatori
di Andrea Palladino
Obiettivo del decreto è quello di svuotare il referendum che, nel primo quesito, riguardava tutti i servizi pubblici locali Gli ecodem: «Non voteremo questo imbroglio. Serve una grande mobilitazione»
Sette mesi è durata la manovra che metterà la mani nella vita quotidiana degli italiani. Un tempo in definitiva breve per cambiare nel profondo il paese, con la più grande privatizzazione mai concepita in Europa dopo l'era Thatcher. Sette mesi, due governi, tre provvedimenti ed un certosino lavoro della più potente lobby economica, quella espressa dai giganti dei servizi pubblici. Sono loro, alla fine, i principali beneficiari del corposo decreto che il governo di Mario Monti sta preparando.
Speravano nel silenzio, cercavano di bloccare le prime indiscrezioni, inviando giovedì sera alle agenzie uno stringato comunicato che cercava di smentire quel testo arrivato nelle redazioni. Un tentativo goffo, che ieri non ha avuto replica, dopo la pubblicazione di ampi stralci del provvedimento..
Le grandi manovre dei privatizzatori hanno una data d'inizio chiara, il 14 giugno scorso. Ovvero il giorno del conteggio dei 27.637.943 voti espressi dagli italiani per abrogare due norme centrali sull'acqua e sulla gestione dei servizi pubblici locali. Un evento storico, ma in fondo facilmente spiegabile: in ballo c'era quello che le multinazionali chiamano «l'essenziale per la vita». Oltre ai servizi idrici quelle norme abrogate riguardavano la gestione dei rifiuti, il trasporto pubblico, gli asili nido, le farmacie comunali. Per questo il successo dei referendum è stato travolgente. Quasi ventotto milioni di persone hanno capito che in ballo c'era molto di più di un acquedotto o di una fontanella pubblica, si trattava in fondo della qualità della vita.
La prima mossa la compie il parlamento, approvando il 21 giugno l'istituzione dell'Agenzia regolatrice dei servizi idrici. Un'autority, ovvero lo strumento principe dei mercati liberalizzati. Già allora spunta la parola chiave, liberalizzazione: «Potete scegliere il servizio migliore», si poteva leggere tra le righe dei commenti usciti dalle bocche e dalle penne dei pasdaran della privatizzazione. «Diminuiranno i prezzi», «Eliminiamo la gestione politica e le poltrone nei Cda» e, immancabile, «Il mercato è in grado di regolare i servizi essenziali».
Dopo il primo passo del parlamento si è aperto un fronte ampio quanto silenzioso, con l'obiettivo dichiarato di svuotare i referendum. Il primo luglio è intervenuta la lobby dei gestori dell'acqua, l'Ania (Associazione nazionale autorità e enti di ambito territoriale). Durante l'assemblea annuale si discute degli «effetti dei referendum». E spiegano: c'è «incertezza sulla normativa applicabile agli affidamenti dei servizi pubblici locali»; e ancora: «ridotta finanziabilità degli investimenti». Una richiesta chiara di interventi per bloccare il cambiamento voluto dagli elettori.
Pochi giorni prima, il 24 giugno, era intervenuto il docente di diritto pubblico Giulio Napolitano - figlio del presidente della Repubblica - che in un documento richiesto dalla romana Acea spiegava come difendere lo status quo: «Il referendum non ha nessun effetto sui rapporti in corso». Acea poteva stare tranquilla, quel voto non avrebbe messo in discussione la grande privatizzazione alla romana, avviata nel 1998 da Francesco Rutelli. E il futuro? Qui entra un punto chiave, che verrà ripreso dall'intervento del governo Monti. Scrive Giulio Napolitano: «L'intera materia dei servizi pubblici (...) rimane disciplinata dal testo unico sugli enti locali». Segnamoci questo passaggio.
Il 3 luglio inizia il ballo dello spread. Sono i conti pubblici il tema quotidiano dei giornali e, rapidamente, il referendum viene archiviato. In un mese e mezzo il governo Berlusconi-Tremonti prepara l'intervento della vigilia di ferragosto, dove appare, all'articolo quattro, la norma Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'unione europea. In sostanza il ministero dell'Economia riprende l'abrogato 23 bis della legge Ronchi e lo riporta - con un vero copia e incolla - nel pacchetto, escludendo il solo servizio idrico. È un imbroglio, in realtà, perché il primo quesito referendario riguardava tutti i servizi pubblici locali. Si avvia così la privatizzazione forzata dei rifiuti, del trasporto pubblico locale e di altri pezzi di vita quotidiana. Un pacchetto confermato - e rafforzato - dal decreto sviluppo, ultimo atto del governo di Silvio Berlusconi. I professori stavano già scaldando i muscoli.
A fine novembre arriva Mario Monti, curriculum da economista ed esperto di quella parola che da mesi girava attorno ai referendum e ai servizi pubblici locali: la liberalizzazione. Il paese è ingessato, bloccato dalle corporazioni, serve aria nuova, è il leit-motiv che intasa le cronache politiche. Si prepara l'atto finale.
La bozza del decreto Monti uscita giovedì ha tre articoli micidiali sui servizi pubblici: il 18, il 19 e il 20. I primi due rafforzano - e nessuno ne sentiva il bisogno - il ripescaggio del 23 bis della legge Ronchi preparato dal governo Berlusconi. L'articolo 20 va più in profondità, riallacciandosi alla sottile analisi di Giulio Napolitano, che tanto aveva tranquillizzato Acea. Intacca un articolo cardine del testo unico degli enti locali, escludendo dalla gestione pubblica - ovvero dagli enti non economici, come le aziende speciali e i consorzi - i servizi locali, acqua inclusa. Tutte le gestioni, in questa maniera, dovranno essere affidate solo alle società per azioni, possibilmente sorrette dal capitale privato. Non solo. I comuni in difficoltà finanziaria dovranno cedere quote prima di bussar cassa allo stato centrale.
Il cerchio ora è dunque chiuso. Manca il passaggio finale, il voto in parlamento, dove essenziale sarà il partito democratico. Gli ecodem spiegano che questo imbroglio loro non lo voteranno, e lo stesso Roberto Della Seta chiede aiuto anche ai movimenti: «Serve una grande mobilitazione dei comitati referendari», spiega al manifesto.
Oggi il quadro è ormai chiaro. La lunga marcia in stile Thatcher sta per arrivare all'ultima tappa.
norma «tecnica» che azzera la ripubblicizzazione di Napoli
di Corrado Oddi
Il governo ha ignorato tutti gli appelli dei movimenti. Ora fa il colpo di mano per esautorare i comuni
In molti si sono cimentati nella discussione sulla discontinuità o meno del governo Monti rispetto al precedente governo Berlusconi. Molto ci sarebbe da dire in proposito, ma certamente non si sbaglia ad evidenziare come non sia cambiato il metodo di accreditare ipotesi e regolarsi sulla base delle reazioni che esse suscitano. Non si può pensarla diversamente rispetto al fatto che nella giornata di ieri sono girati varie versioni sul presunto testo del decreto legge sulle liberalizzazioni che il governo dovrebbe varare il prossimo 20 gennaio.
Non è certamente un bel modo di fare la discussione, ma si rischia di non potersi sottrarre a quest'esercizio poco edificante se il governo sceglie di non confrontarsi con i soggetti che sono portatori delle varie istanze e rappresentanze sociali. Questo vale anche sul tema dei referendum del giugno scorso sull'acqua pubblica: subito all'indomani dell'insediamento del governo Monti il Forum dei movimenti per l'acqua ha chiesto un incontro con il Presidente del Consiglio per poter discutere sull'applicazione e il rispetto dei due referendum che hanno sancito che la gestione del servizio idrico deve essere pubblica e che su di esso non si possono fare profitti.
Questa nostra richiesta è stata del tutto ignorata; in compenso, ieri ci è toccato leggere un testo del presunto prossimo decreto del governo che all'art. 20 contiene una dizione molto tecnica, ma che assesta un colpo molto pesante alla volontà referendaria espressa dalla maggioranza assoluta dei cittadini italiani. Lì si dice che le Aziende speciali, soggetti di diritto pubblico e non società per azioni che operano allo scopo di produrre utili, sono abilitate a gestire solo servizi pubblici «diversi dai servizi di interesse economico generale». Uscendo dal tecnicismo, il governo vuol dire che il servizio idrico, considerato servizio di interesse economico generale - anche se ci sarebbe molto da dire su ciò - potrebbe essere gestito solo tramite gara o da società per azioni, eliminando il punto più importante dell'esito del primo referendum sull'acqua, quello che ha nuovamente reso possibile una gestione realmente pubblica del servizio idrico stesso. Per dirla in un altro modo, si vuole cancellare l'esperienza che ha iniziato il Comune di Napoli, trasformando la società per azioni a totale capitale pubblico che gestisce il servizio idrico in Azienda speciale, e che potrebbe interessare in tempi brevi la gran parte del nostro Paese. In più, il presunto testo del decreto rafforza la volontà privatizzatrice in materia di trasporto pubblico locale e ciclo dei rifiuti che era già stata messa in opera con la manovra dell'estate scorsa del governo Berlusconi, che contravveniva platealmente con il risultato referendario. Infine, si continua a non dare applicazione al fatto di togliere la remunerazione del capitale investito dalle tariffe del servizio idrico, non rispettando così quanto dettato dalla stessa Corte Costituzionale sul secondo quesito referendario.
È bene che il governo cambi completamente rotta: cancelli i provvedimenti ipotizzati sulle Aziende speciali, consideri il ruolo fondamentale svolto dai servizi pubblici locali anziché lavorare per la loro privatizzazione, dia applicazione all'eliminazione del profitto sulle tariffe, si confronti con chi rappresenta la volontà di 26 milioni di cittadini. Come è necessario che le forze politiche e sociali si pronuncino in modo chiaro per evitare che sia inferto un grave colpo alla democrazia nel nostro Paese. Si sappia che, comunque, la mobilitazione del popolo dell'acqua è già in corso e si intensificherà nei prossimi giorni, con iniziative in tutto il Paese, con la campagna di obbedienza civile per il ricalcolo delle bollette, con l'azione perché si affermi una gestione realmente pubblica del servizio idrico.