Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)
È partita lunedì la privatizzazione di Poste Italiane, che verrà realizzata con la collocazione sul mercato di azioni della società corrispondenti a poco meno del 40% del capitale sociale. L’obiettivo dichiarato dal governo è l’incasso di circa 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico. Già da questa premessa emerge il carattere ideologico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro comporterà, infatti, un drastico calo del nostro debito pubblico dall’attuale vertiginosa cifra di 2.199 miliardi (dati Bankitalia) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza contare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Italiane, 1 miliardo di euro, andrà calcolato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a partire dal 2016.
Si tratta di un evidente rovesciamento ideologico della realtà: non è infatti la privatizzazione di Poste Italiane ad essere necessaria per la riduzione del debito pubblico, quanto è invece la narrazione shock del debito pubblico ad essere la premessa per poter privatizzare Poste Italiane.
Occorre poi aggiungere come anche il prezzo di vendita del 40% di Poste Italiane sia stato ipotizzato al massimo ribasso, prefigurando, ancora una volta, la svendita di un patrimonio collettivo. Infatti, mentre Banca Imi, filiale di Intesa Sanpaolo, attribuiva, non più tardi di una settimana fa, un valore a Poste Italiane compreso fra gli 8,95 e gli 11,42 miliardi di euro, e mentre Goldman Sachs parlava di una cifra compresa i 7,9 e i 10,5 miliardi, ai blocchi di partenza della vendita delle azioni la società risulta valorizzata fra i 7,8 e i 9, 79 miliardi.
A questo, vanno aggiunti tutti i fattori di rischio insiti nell’operazione, legati al fatto che mentre si decide di privatizzare un servizio pubblico universale, consegnandolo di fatto alle leggi del mercato, se ne rafforza al contempo, per rendere più appetibile l’offerta, il carattere monopolistico nel campo dei servizi oggi offerti, per i quali non v’è invece alcuna certezza rispetto al domani: parliamo dell’accordo vigente con Cassa depositi e prestiti per la gestione del risparmio postale (1,6 miliardi di commissione), così come dei crediti vantati da Poste nei confronti della pubblica amministrazione (2,8 miliardi). Senza contare come la società abbia in pancia strumenti di finanza derivata, il cui fair value, al 30 giugno 2015, risulta negativo per 976 milioni.
Ma aldilà di queste considerazioni economicistiche, è a tutti evidente come, con il collocamento in Borsa del 40% di Poste Italiane, muti definitivamente la natura di un servizio, la cui universalità era sinora garantita dal suo contesto di garanzia pubblica, che permetteva, attraverso i ricavi realizzati dagli uffici postali delle grandi aree densamente urbanizzate, di poter mantenere l’apertura di uffici, spesso con funzioni di presidio sociale territoriale, in tutto il territorio italiano, a partire dai piccoli paesi. E’ evidente come la privatizzazione in atto inciderà soprattutto su questo dato: per i dividendi in Borsa diverrà assolutamente necessario il taglio dei rami economicamente secchi, ovvero la drastica riduzione degli sportelli nelle aree poco popolate.
E, infatti, il piano industriale già prevede - ma sarà solo l’assaggio - la diversificazione dei modelli di recapito, che da ottobre 2015 rimarrà quotidiano per nove città definite ad «alta densità postale», mentre diverrà a giorni alterni per 5267 comuni. Quasi tautologico sottolineare l’impatto sul mondo del lavoro, che vedrà una drastica riduzione - si parla nel tempo di 12–15.000 posti in meno - oltre al sovraccarico di ritmi per quelli che avranno la fortuna di essere sfuggiti alla mannaia.
*Attac Italia