La tentazione presidenzialista
di Sergio Romano
Confesso di non avere capito se l'Unione abbia fatto un passo indietro per meglio rilanciare la candidatura di Massimo D'Alema o voglia effettivamente discutere con l'opposizione la scelta della persona che dovrà diventare presidente della Repubblica. Ma per il momento, dopo avere letto le dichiarazioni di Piero Fassino al Foglio, dobbiamo presumere che il suo partito non abbia rinunciato a sostenere la candidatura del suo presidente.
Il segretario dei Ds dice che è ora di chiudere la fase della «guerra». Si rende conto che una metà del Paese ha votato per l'opposizione e promette che il governo Prodi «si farà carico delle scelte di chi lo ha preceduto nel nome dell'interesse nazionale». Non vuole una repubblica presidenziale ma sostiene che il capo dello Stato debba essere il garante di una fase nuova e gli assegna quattro compiti. In primo luogo, se vi sarà crisi, dovrà sciogliere il Parlamento e chiedere al Paese di tornare alle urne. In secondo luogo, come presidente del Consiglio superiore della magistratura, dovrà «evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica». In terzo luogo dovrà favorire, sulle grandi questioni internazionali, «la massima intesa possibile». In quarto luogo dovrà vigilare dal Colle affinché, dopo la bocciatura del referendum confermativo sulla riforma del governo Berlusconi, si «porti a conclusione una transizione costituzionale da troppi anni incompiuta». Non è tutto. Per assumere pubblicamente questi impegni il candidato potrebbe presentare «ai mille grandi elettori, che da lunedì voteranno, una specie di programma presidenziale sul quale chiedere un consenso diffuso».
E' un progetto interessante in cui Fassino fa qualche implicita ammissione. Riconosce, senza dirlo espressamente, che vi sono stati cortocircuiti fra giustizia e politica, che la sinistra non può fare da sola la politica estera e che il centrodestra ha avuto il merito di mettere all'ordine del giorno la riforma della Costituzione. Ma contraddice la premessa delle sue dichiarazioni. Quella che il segretario dei Ds ha delineato non è forse una «repubblica presidenziale» ma prefigura uno Stato alquanto diverso da quello in cui, con qualche ipocrisia, abbiamo vissuto negli ultimi cinquant'anni. Nessun candidato al Quirinale, sinora, ha chiesto voti sulla base di un programma. E nessun candidato, in particolare, si è impegnato a sciogliere il Parlamento in una specifica circostanza. La «manovra antiribaltone», che il centrodestra vorrebbe inserire nella Costituzione, diventerebbe così parte integrante del programma presidenziale e darebbe al capo dello Stato un potere di controllo sul governo. Installato al Quirinale, infatti, D'Alema potrebbe aiutare Prodi a mantenere intatta la sua maggioranza (la prospettiva delle elezioni anticipate è un efficace deterrente contro i ricatti di palazzo) ma potrebbe anche orientare indirettamente la linea politica dell'esecutivo.
Quella che Fassino propone, quindi, è una sorta di diarchia, vale a dire una sostanziale modifica del sistema politico come si è andato formando, sulla base della Costituzione, nella storia della Repubblica. Il suo capo dello Stato sarebbe in alcuni casi il «presidente di tutti gli italiani» ma anche, contemporaneamente, il garante del governo in carica e il suo tutore (e tale sarebbe soprattutto se non venisse eletto con una larga maggioranza, ma dopo la terza votazione con il solo sostegno della sua parte). Insomma, quello di Fassino, che piaccia o meno, non è un programma politico: è una riforma costituzionale.
L'altolà della sinistra: no a baratti giustizia-Colle
di Francesco Battistini
ROMA — " Signor colonnello, sono il tenente Innocenzi. Accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani" (Alberto Sordi in Tutti a casa, 1960).
Tutti a casa. Se la guerra con Berlusconi è finita, come dice Piero Fassino, c'è una trincea da svuotare subito. Riga 52 dell'intervista al Foglio, punto secondo del Manifesto Per D'Alema Presidente, programma di lavoro del settennato a venire: «Da capo del Csm — dice il segretario ds —, un presidente che eserciti la funzione di garanzia operando, come ha fatto Ciampi, per evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica».
Ventisei parole. Che a qualcuno sembrano il prezzo del Quirinale: «Il nuovo inciucio — commenta Marco Travaglio —. Il segnale l'ha dato Dell'Utri: ripartiamo dalla Bicamerale, arrivano a maturazione altri processi. Telecinco in Spagna, Mediaset e Mills a Milano... Questa è la risposta: se tratti con Berlusconi, sappi che le sole cose che gl'interessano sono le tv e la giustizia. Qualcuno che "garantisca" sui magistrati...».
Il Colle a D'Alema in cambio del collo di Silvio. La solita proposta indecente? I magistrati la prendono soft: «Le parole di Fassino mi sembrano talmente vaghe... Lasciamoli trattare», dice il neodeputato ds Gerardo D'Ambrosio: «Non vedo cortocircuiti, piuttosto delegittimazioni: l'altro giorno, una giornalista giapponese mi diceva stupita che da loro è inconcepibile un governo che attacca la magistratura». Asciutto Giuseppe Gennaro, presidente dell'Anm: «È giusto che il nuovo capo dello Stato prosegua sulla strada segnata da Ciampi. Ricordando che la magistratura, checché se ne dica, non pronuncia sentenze politiche». Ad Antonio Di Pietro, il passaggio di Fassino non piace: «Quest'idea che il futuro capo dello Stato debba garantire sui cortocircuiti, va oltre le sue funzioni. Se poi questo significa anche altro, cioè l'impunità a Berlusconi in cambio del Quirinale, siamo all'assurdo. Non credo che Fassino si presti al baratto: chiunque l'accetti, diventa complice d'un abuso».
«Per carità di Dio!», no, Fassino non può voler quello: ne è sicura Anna Finocchiaro, capogruppo ds al Senato, perché «quelle parole possono essere lette in due modi: o come un segnale di garanzia ai magistrati, o come un'attenzione alla politica che soffre l'autonomia delle toghe». In ogni caso, occorre ricomporre «un clima di conflitto e garantire autonomia tanto al potere giudiziario che a quello politico», superando «un clima di sospetto che non fa andare avanti il Paese».
I soliti sospetti. Con omissis che si notano, nell'intervista di Fassino: per esempio, il silenzio sul conflitto d'interessi. «Il tema va affrontato — dice D'Ambrosio — e su questo non si discute. Ci si è lamentati di non aver fatto abbastanza nella XIII legislatura e niente nella XIV: vogliamo ripeterci? Chi ci ha eletto, ci ha chiesto di risolverlo una volta per tutte». Sarcastico Travaglio: «Come può Fassino parlare di conflitto d'interessi, se va a lanciare il "manifesto" sul giornale della moglie di Berlusconi, diretto da un ex ministro di Berlusconi, il giorno dopo l'avvertimento di Dell'Utri e dopo aver zittito Bertinotti che, su Mediaset da ridimensionare, ha ripetuto soltanto quel che dice la Consulta?».
D'Alema quirinabile, inciucio inevitabile, pensa l'opinionista dell'Unità. Un pateracchio proprio sulla giustizia: «Che custode e garante potrebbe essere un D'Alema che, presidente della Bicamerale, accettò indecenti compromessi al ribasso sull'indipendenza della magistratura?». C'è «un fumus oggettivamente ricattatorio», sostiene Travaglio, e così si spiega quella riga 52: «Anche D'Alema ha interesse a "garantire" sui magistrati che, in passato, qualche problema gliel'hanno dato. Un capo dello Stato non solo non dev'essere ricattabile, ma neppure sembrarlo. Guardate Unipol: non furono i Ds a dire che Berlusconi ha ancora i cd delle famose telefonate? La partita è aperta, a luglio c'è da rifare il Csm e con le nuove regole i membri politici, quelli che controllano le toghe, saranno di più. In questi anni, c'è stata anche una Bicamerale degli affari: speriamo