«Prendersi cura, delle persone e delle cose, è un concetto assolutamente radicale», osserva Naomi Klein. «È interessante il fatto che ci metta in difficoltà. Penso che dobbiamo farlo nostro». Klein è quanto di più simile a una rock star si possa trovare nella sinistra radicale. È un personaggio pubblico fin da quando la sua opera prima, No logo, è diventato un libro di culto del movimento no global nei primi anni duemila, ma lei rifugge la celebrità.
La incontro all’inizio di giugno al People’s summit, una grande riunione dei progressisti statunitensi organizzata a Chicago, un paio di giorni prima della pubblicazione del suo ultimo libro, No is not enough. Ma Klein non è qui per promuovere il suo lavoro. Come tutti gli altri, è qui perché le importa.
«Trump sta creando e alimentando il desiderio di un cambiamento sistemico. Incarna un fallimento di sistema, che, sì, a quanto pare è un motore più potente dei cambiamenti climatici. Questo potenziale di trasformazione mi emoziona».
Il lavoro più urgente e personale
Klein parla davvero così, senza mai fermarsi. Si capisce che crede in quello che dice. Nata in Canada negli anni settanta da oppositori alla guerra del Vietnam, non ha mai chiesto scusa per il fatto di essere un’attivista oltre che un’autrice e una giornalista. No is not enough è il suo lavoro politico più urgente e istruttivo, oltre che il più personale.
Klein passa senza difficoltà dal discutere nuove strategie per combattere il programma sessista, razzista e schiavo delle multinazionali dell’amministrazione Trump alla descrizione della sua esperienza di madre (ha un figlio di quattro anni) e del modo in cui la sua comprensione della responsabilità umana è cambiata dopo l’ictus che sua madre ha avuto quando Naomi era appena un’adolescente. Ciò che tiene tutto assieme è l’architettura del prendersi cura. E il prendersi cura, mi spiega Klein, «è tutt’altro che un segno di debolezza».
“Il prendersi cura” ha una brutta reputazione all’interno della sinistra. Fa pensare agli orsi dei cartoni animati o alle adolescenti che hanno sentimenti esagerati per i delfini. The leap, il movimento canadese guidato da Klein, che combatte contro il cambiamento del clima e per la giustizia sociale, ha come slogan “Dedichiamoci alla terra e agli esseri umani”. In effetti, ammette Klein, sembra uno spot pubblicitario dell’attivismo biologico. Ma è anche un riassunto di ciò che gli esseri umani non sono riusciti a fare negli ultimi secoli e di ciò che dobbiamo imparare a fare, se non vogliamo andare incontro alla catastrofe.
Il lavoro di cura dell’uno nei confronti dell’altro e delle nostre comunità non rientra tanto in un programma femminista quanto in un programma declinato al femminile, ed è per questo che per così tanto tempo è rimasto fuori dal quadro politico più generale. Dunque è perfettamente logico che il motore del People’s summit sia il principale sindacato di infermieri degli Stati Uniti, il National nurses united (Nnu), che ha più di 150mila iscritti, in maggioranza donne non bianche.
La resistenza nell’era di Trump
«Seguirei un infermiere ovunque», ha dichiarato Klein nel comizio d’apertura, e ripete il concetto durante il nostro incontro dietro una piccola fila di bancarelle di libri nel terzo giorno del vertice. Quattromila persone hanno già passato 36 ore in questo cavernoso centro congressi, tra discussioni e workshop, con la luce artificiale e l’aria condizionata ad alimentare la sensazione di essere in uno spazio fuori dal tempo, dove tutto è possibile, anche (e soprattutto) nell’America di Donald Trump.
Klein ha un sesto senso per pubblicare il libro giusto al momento giusto. No is not enough è stato scritto in quattro mesi, mentre l’autrice gestiva un gruppo di attivisti e cresceva un figlio. È un’opera brillante, una guida alla resistenza nell’era di Trump, costruita sull’idea che limitarsi a resistere all’oppressione non basta.
Come società, spiega Klein, dobbiamo decidere non solo quali atrocità sono intollerabili, ma anche cosa siamo pronti a costruire per combattere queste atrocità. Il libro ha un pregio rarissimo nella scrittura politica: è stimolante e profondamente sensato. Leggendolo – e partecipando al People’s summit – mi sono trovata ad annuire davanti alla richiesta di un cambiamento profondo nel modo in cui organizziamo la politica economica, quella ambientale, la giustizia razziale e molto altro, nello stesso modo in cui annuiamo davanti a un medico che ci spiega la cura per una grave malattia. È una proposta che fa paura, ma è anche l’unica sensata. L’urgenza di questa fase della storia umana lo impone.
«Le nostre idee si diffondono sempre di più, ma lo stesso si può dire delle idee più dannose e pericolose del pianeta», spiega Klein. «Si manifestano con atti estremi di violenza in strada, commessi dallo stato e dai suprematisti di destra, spinti dal fatto che alla Casa Bianca ci sono persone che la pensano come loro. È una sfida intellettuale, sociale, ambientale».
In caduta libera
Se dovete sentirvi male a un raduno di qualsiasi tipo, vi consiglio di farlo a un raduno di infermieri. Sono arrivata a Chicago per intervistare Klein e capire se c’è una speranza per la sinistra nella prima, torrida estate dell’America di Trump. Ma appena ho messo piede fuori dell’aereo sono stata colpita da quella che la scienza definisce malattia immaginaria galoppante.
Sentivo le ossa come se fossero in un calderone di zuppa bollente. La mia testa era piena di una melma tossica. Ho chiesto al banco del check-in se avevano antidolorifici. Dieci minuti dopo ero seduta su un divano di plastica e cercavo di non vomitare la colazione. Deborah Burger, copresidente dell’Nnu, che sicuramente aveva qualcosa di meglio da fare, mi chiedeva cosa mi facesse male.
Tutto, volevo dirle che mi fa male tutto, che tutte le persone che conosco lavorano come bestie per quattro soldi e che il tardo capitalismo sta lentamente strangolando ciò che rimane dell’energia giovanile della mia generazione. Il mio paese è in caduta libera politica e sembra che ogni settimana ci sia uno psicopatico religioso che decide di ammazzare un po’ di gente. Come se non bastasse, avevo la madre di tutti i mal di testa.
Burger mi ha dato gli antidolorifici e un bicchiere di succo d’arancia. Poi mi ha parlato dell’imminente fine della cleptocrazia. È un’infermiera convinta che il suo lavoro non finisca quando il paziente va a casa. «Non possiamo limitare il nostro sostegno al letto d’ospedale. Dobbiamo allargarlo, perché vogliamo evitare che la gente arrivi in ospedale. Vogliamo sostenere la prevenzione. Vogliamo tenere le persone lontane dalle prigioni, perché il denaro speso per incarcerare la gente potrebbe essere impiegato nel sistema sanitario e per quello scolastico».
Parte del motivo per cui Klein ha potuto scrivere un libro così dettagliato in così poco tempo è che in un certo senso si preparava a scriverlo da tutta la sua vita adulta. È la sintesi delle teorie contenute nei tre libri politici precedenti: il potere politico dei marchi in No logo, il modo in cui l’élite sfrutta le crisi sociali ed economiche per consolidare il suo potere in Shock economy e il modo in cui la prossima crisi climatica renderà necessario un nuovo genere di attivismo per la sopravvivenza della specie in Una rivoluzione ci salverà.
«Ho scritto il libro per molte ragioni, ma la più urgente derivava dalla sensazione che gran parte delle discussioni su Trump non avesse un contesto storico», mi ha spiegato. Secondo Klein troppe persone continuano a trattare la crisi costituzionale in atto alla Casa Bianca «come una sconvolgente aberrazione destinata a sparire una volta che ci saremo liberati di Trump. Ma abbiamo già commesso questo errore, per esempio con George W. Bush». Trump, in ogni caso, ha reso tutto molto più chiaro.
Qui nessuno è contento che Trump sia il presidente degli Stati Uniti. Ma la posta in gioco ormai è evidente anche a quelli che prima tentennavano. Per esempio, è ovvio che le politiche favorevoli alle imprese e contrarie ai princìpi ecologici, oltre al ritorno al potere di sentimenti sessisti e razzisti, sono intimamente connessi, e la resistenza a queste due tendenze è una resistenza unica. Trump potrebbe essere l’onda d’urto – per utilizzare un’espressione di Klein – che spingerà la sinistra globale a rimettersi in sesto.
Un sovrumano signore gentilissimo
A un certo punto interviene Bernie Sanders. Fa un bel discorso, per quello che riesco a sentire tra applausi continui. È come un pasticcio tra un sermone e le parti più stimolanti di I Miserabili. Questo significa che, anche se non si è convinti dalle idee di Sanders, si può capire perché la gente si appassiona a lui. Prima di Sanders ci sono stati altri oratori carismatici, e Bernie non ha detto nulla che non sia già stato detto durante tutti gli incontri. Ma su di lui si riversa l’entusiasmo della massa. In qualche modo la sua parlata semplice e il suo atteggiamento da zio incazzato risultano affascinanti. Non abbastanza da farmi alzare in piedi e ruggire insieme a tutti gli altri, ma io sono un po’ troppo britannica e troppo malata per farlo.
È qui che ho capito il vero senso di Bernie Sanders. Avere ragione non basta. Bernie personifica un’idea il cui tempo è finalmente arrivato, anche perché dopo due anni passati a riempire gli stadi ha ancora l’aria di uno che non capisce perché la gente lo stia a sentire ed è triste perché si trova in un punto della storia in cui è rivoluzionario chiedere che gli ospedali non rifiutino di prendersi cura dei bambini malati.
Non dovrebbe essere così, ma negli Stati Uniti è così.
Ciò che rende diverso il People’s summit è qualcosa che manca da generazioni alla sinistra globale: funziona. Le persone che non hanno più tempo per i teatrini si ascoltano a vicenda e con rispetto, cercando di stringere legami. Le sessioni sono aperte a tutti e concrete. Il cibo è sufficiente e decente. Gli organizzatori riescono in qualche modo ad assicurarsi che quattromila persone sappiano sempre dove devono andare e quando. Non è una cosa da poco per uno strato sociale caotico, segnato da lotte interne, da fragilità e dall’incapacità di mettersi d’accordo anche sulle cose più semplici.
«Ci ricorda perché lo spazio fisico è importante», spiega Klein. «Dobbiamo guardarci negli occhi. Penso che in questo momento ci sia un grande desiderio di creare una cultura della responsabilità e la capacità di ascoltare le critiche e di avere conflitti senza però mandare tutto all’aria».
Le infermiere sono all’avanguardia di questo cambiamento perché lo vivono da anni, come spiega Kari Jones, dell’Nnu: «Penso che il motivo per cui le infermiere si sono fatte avanti come leader del movimento progressista è che incarnano un sistema di valori che è l’opposto di quello guidato dal profitto, un sistema basato sulla cura, l’assistenza, la compassione, la comunità. È difficile intaccare la volontà di un’infermiera».
Questa architettura del prendersi cura è il vero luogo della resistenza. Può essere un compito noioso come prendersi cura di una giornalista malata o una grande missione come riorganizzare la cultura di una superpotenza per dare la priorità alla salute e all’assistenza sociale. Può essere facile come garantire che i nativi d’America siano adeguatamente rappresentati nei nostri dibattiti o difficile come chiedere che il petrolio sepolto sotto le loro terre resti dov’è. È qui che si vive la lotta per il cambiamento. Manifestare nelle strade aiuta, ma non basta. Il centro di tutto è ciò che vogliamo per la nostra società, per il nostro paese e l’uno per l’altro.
La teorica Nancy Fraser ha identificato una “crisi del prendersi cura” accanto a quella che molti hanno indicato come crisi del capitalismo. L’opera di costruzione delle famiglie, delle comunità, delle istituzioni e della democrazia non è un lavoro che il capitale può assorbire e monetizzare, ma senza di essa la componente umana del capitalismo si atrofizza. La gente diventa triste e malata.
Per questo la lotta per l’assistenza sanitaria universale, a prescindere dal reddito, è diventata un tema centrale della sinistra americana. Ripristinare Obamacare non è sufficiente. In tutti i dibattiti e in ogni intervento del People’s summit la richiesta di un’assistenza sanitaria per tutti viene ripetuta in diverse forme e suscita sempre le reazioni più calorose.
Per fornire assistenza medica per tutti negli Stati Uniti ci vorrebbe una radicale redistribuzione delle ricchezze dai ricchi verso i poveri. In California lo stato potrebbe permettersi questo enorme costo, ma la legge per la creazione di un sistema sanitario gestito da un unico ente è bloccata al senato locale. È una questione di priorità, di senso del bene e del benessere comune. È una questione d’amore, e dico sul serio.
Quando Hillary ha scelto “Love trumps hate”, l’amore sconfigge l’odio (gioco di parole con trump, sconfiggere in inglese) è sembrato uno slogan stupido, e lo era. Era insipido e banale perché non nasceva da una comprensione solida di cosa è l’amore. L’amore, in senso politico, non è un sentimento. È un’azione. È inarrestabile e spietato. È la disciplina dell’esserci l’uno per l’altro e per il bene collettivo, ancora e ancora.
Il potere della responsabilità
Amare le altre persone è molto difficile. Passare 36 ore in un centro congressi con gli esponenti della sinistra internazionale me lo ha ricordato. “La gente” è immorale e distratta, si emoziona davanti alle celebrità e agli slogan. Per metà del tempo le persone non riescono a stare in una stanza con altre persone. Ma quando arriva il momento decisivo niente di tutto questo è importante. Importa solo esserci l’uno per l’altro.
In tanti fraintendono il significato di “potere della gente”. Prima di tutto “la gente” non è unita di per sé, e la frase non si riferisce a un potere fisico. Non si intende il potere di resistere ai proiettili o agli attacchi dei droni. Quel tipo di “potere della gente” può essere abbattuto facilmente. Il vero potere della gente è il potere della memoria e della resistenza. Il potere di dedicarsi l’uno all’altro, il potere della responsabilità.
«È una responsabilità spaventosa», mi dice Klein. «Non è una responsabilità con cui sono cresciuta. Nella mia vita politica adulta non abbiamo mai pensato che avremmo conquistato il potere. Ma la campagna di Bernie Sanders, quella di Jeremy Corbyn e anche quella del candidato presidenziale francese Jean-Luc Mélenchon e di Podemos ci fanno capire che il potere è a portata di mano. E la spaventosa responsabilità di questa consapevolezza, mentre il conto alla rovescia del clima continua a correre e le crisi ci colpiscono sovrapponendosi l’una all’altra… no, non la chiamerei speranza. Ma la descriverei come un momento significativo. Non voglio sprecare tempo pensando alla speranza».
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.