«Il significato della manifestazione contro l'Expo non è cancellato dalle inaccettabili devastazioni che hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo». L'Altra Europa con Tsipras, mailing list, 2 marzo 2015
La risposta alla convocazione del May day - che quest’anno univa a Milano, in un’unica mobilitazione internazionale, il tema consueto del precariato e la denuncia dell’Expò - è stata massiccia e articolata. Tantissimi (più di 30.000), quasi tutti giovani; meno birra degli anni scorsi; ben otto bande di “ottoni” da diversi paesi europei. E poi, cordoni di famiglie che occupano la casa, con i centri sociali che le proteggono; centinaia di lavoratori di colore; forte presenza dei sindacati di base, di anarchici, pacifisti, ambientalisti, animalisti (che nel movimento No-expò hanno un punto di forza), degli Lgbt e dei partitini della sinistra, questa volta ammessi insegne e bandiere. Striscioni, cartelli e slogan documentavano una cultura che sta imparando a connettere lavoro, reddito, casa, salute, accoglienza con la difesa del clima, del suolo, della democrazia, della pace e contro debito, speculazione edilizia, corruzione e mafia: tutti temi presenti non come mere enunciazioni, ma sulle gambe delle migliaia di persone in carne e ossa che hanno partecipato al corteo con un bersaglio comune nell’Expò e in ciò che rappresenta: un concentrato delle nefandezze della società in cui viviamo. Un “grande evento” che pretende di combatter lo spreco ma fatto di sprechi di suolo, di materiali, di denaro, di occasioni; e di sfruttamento del lavoro in ogni forma.
Quel corteo, indipendentemente dai suoi esiti, ha messo in chiaro che in gioco non c’è solo un grande evento di cui si poteva benissimo fare a meno – come in gioco in Val di Susa non c’è solo “un treno”, come pretende Bersani, e a Venezia non solo grandi navi e Mose – bensì uno scontro di culture, di visioni, di modi opposti di considerare lavoro, territorio, città, denaro, diritti e dignità della persona. Che è la ragione per cui la Valle di Susa resiste da oltre vent’anni e ha costruito intorno a questa resistenza gli embrioni di un modo radicalmente alternativo di vivere i rapporti con gli altri: quel “partiamo insieme e torniamo insieme” che vale in tutti i campi e non solo nelle manifestazioni. Chi critica i No-expo perché si limiterebbero a un rifiuto invece di proporre contenuti positivi – oppure, pura ipocrisia, ne denuncia l’inutilità perché “tanto ormai l’Expò si fa” – non solo dimostra di non capire qual è la posta in gioco. Ma anche di non interessarsi a quanto il movimento, nelle sue varie articolazioni, ha prodotto in ben otto anni. O, peggio, di voler nascondere con un pretesto la subalternità alla Giunta Pisapia e ai partiti che la sostengono, che alle sue false promesse dell’Expò hanno sacrificato il programma che li ha portati al governo della città.
Poi - cioè dopo - ci sono le devastazioni che hanno accompagnato il corteo. Inaccettabili: hanno messo a rischio incolumità, beni e lavoro di chi le ha subite; ma soprattutto hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo. Nonostante la grancassa che ha preceduto e accompagnato l’inaugurazione dell’Expò, nelle ultime settimane, media e stampa nazionali, andavano moltiplicandone le critiche, in gran parte con i temi agitati dai No-expò.
In realtà non è successo molto più di quanto accaduto poche settimane fa a Francoforte, durante Blockupy BCE, o altrove: poche centinaia di ragazze e ragazzi (non pochissimi, quindi) hanno usato un appuntamento del movimento impadronendosi della scena con una prova di forza: un rito idiota e ripetitivo, per richiamare l’attenzione su di sé; ma un rito a cui è difficile sfuggire a meno di rinunciare a manifestare. Indubbiamente concorrono all’esito di aggressioni come questa sia il rilievo che viene dato loro, spesso prima ancora che abbiano luogo, in un’attesa che ne moltiplica le potenzialità distruttive, sia il comportamento delle forze dell’ordine: che a volte ne duplicano gli effetti con dosi sproporzionate di violenza; a volte, impegnate più a filmare che a contenere i danni (e magari anche a dare una mano…), come a Milano, lasciano campo libero al vandalismo, purché “confinato” in uno spazio limitato.
Lo hanno ammesso sia il Questore che il Sindaco di Milano – “è solo un chilometro e mezzo; Milano è molto più grande” – cui premeva soprattutto salvaguardare gli accessi all’Expò e alla Scala. Va anche detto che quel vandalismo senza obiettivi se non quello di rimarcare la propria presenza, imponendosi con violenza a chi è lì per tutt’altri fini e con tutt’altro spirito, ha il suo modello nelle tifoserie che le autorità italiane si guardano bene dal combattere (come hanno fatto invece molti Governi di altri paesi) e che i padroni del calcio si adoperano a sostenere (nascondendo poi la mano quando il casino supera certi limiti). Niente di strano, quindi, se qualcuno esporta questi metodi in campo “politico”.
E tuttavia, fermo restando che le responsabilità vanno cercate anche altrove, non si può tacere la contiguità tra chi scende in piazza per raccogliere consensi e far crescere tra mille difficoltà un movimento contro oppressione e sfruttamento e chi invece di questi sforzi, costati anni di lavoro, abusa: non solo con prove di forza, che a volte sono necessarie, ma fregandosene sia dell’incolumità che delle finalità dei manifestanti con cui si mescola. Quella contiguità è data dalla condivisione di un generico antagonismo - vissuto ovviamente in maniera diversa, e anche opposta, ma con molte sfumature intermedie - nei confronti dello “stato di cose presente”.
Un orizzonte comune che non può essere rinnegato, pena la perdita della ragion d’essere del proprio impegno, ma anche della possibilità del coinvolgimento in una prospettiva diversa. Anzi, quell’orizzonte comune va valorizzato, perché non è con le prediche, ma solo con la capacità di riconoscersi partecipi di una condizione comune che si può volgerlo a beneficio di tutti. Dietro quel vandalismo c’è la rabbia impotente di chi non cerca più – o non ha mai cercato - una via di uscita condivisa per sé e per i propri compagni di vita. Di chi non vede nella città un’arena per battaglie più vere della riproposizione di scontri spettacolari senza futuro. Di chi si appaga del protagonismo offerto per qualche giorno da quotidiani e media. Di chi avverte che la competitizione di tutti contro tutti alla base di questa società non ha niente da offrirgli e non vede la possibilità di una strada diversa fondata sulla solidarietà con nuovi compagni di lotta.
In questo – e solo in questo – è difficile dar loro torto: da anni le frustrazioni di chi lavora per costruire e allargare un fronte comune di lotta non si contano più (e non spostano di una virgola gli equilibri del potere); mentre a bloccare la prospettiva di un modo diverso concorrono, giorno per giorno, le continue frammentazioni politiche; e, a scadenze diluite, le esplosioni di vandalismo (ho in mente il 15.10.2011 – cinque anni fa! - quando un’acampada come quelle spagnole era stata soffocata sul nascere). Per questo “prendere le distanze” non basta, anche se è d’obbligo. Né servono i servizi d’ordine, che un movimento disperso non è più in grado di organizzare; né gli ostracismi, che nessuno può far rispettare; né tante mamme di Baltimora, anche perché molti di quei vandali sono già “grandi”. Ci vogliono iniziative più profonde, più unitarie, più coinvolgenti.