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Lodo Meneghetti
Poteva essere rivoluzione?
3 Maggio 2010
Recensioni e segnalazioni
Recensione al volume: Cesare Bermani, La battaglia di Novara. 9-24 luglio 1922. L’ultima occasione di una rivolta antifascista, DeriveApprodi, Roma 2010

26 aprile 2010. Ieri, sessantacinquesimo anniversario della Liberazione, eravamo alla manifestazione milanese in Piazza Duomo, con i giovani. Milano, luogo topico della Resistenza, dell’antifascismo. Novara e la sua provincia non meno. Anzi. Le battaglie del ’43-’45 nelle valli dell’Ossola e in Val Sesia appartengono alla storia più intensa della guerra partigiana. Temo che si sia perso il ricordo della repubblica indipendente dell’Ossola instaurata dalle formazioni “ribelli” nel cuore del dominio tedesco e fascista.

Il comune di Novara e il Novarese, ora città e territorio sotto la cappa nera leghista e berlusconiana, noti come “provincia rossa” fin dal primo dopoguerra quando, nelle elezioni del 1921, le sinistre raccolsero il 54 per cento dei voti, furono protagonisti rivoluzionari nella storia d’Italia in tre fondamentali passaggi. Del primo, anche gli scolari ricordano l’avvenimento famoso: la battaglia del 23 marzo 1849, la sconfitta inflitta dall’esercito austriaco ai piemontesi presso il borgo della Bicocca a sud del capoluogo, l’armistizio firmato dal re Carlo Alberto a Vignale davanti al maresciallo Radetzky. Ma pochi conoscono l’appassionata adesione dei novaresi ai moti della sperata rivoluzione nazionale tra il 1848 e il 1849 (cfr. Alfonso Leonetti nella Prefazione alla prima edizione, p.19). Il terzo, in ordine di data, appunto la lotta armata contro i nazisti e i fascisti dopo il settembre 1943. Il secondo, la «guerra civile tra fascismo e classe operaia nel luglio 1922» (Leonetti, idem), oggetto di questo straordinario libro (versione riveduta e ampliata dell’edizione del 1972).

Che, mentre risolve in noi milanesi di adozione colpevoli vuoti culturali, suscita subito un sentimento quasi di orgoglio per essere vecchi novaresi, di nascita e tradizioni familiari, poi risveglia la memoria dei luoghi conosciuti teatro delle vicende, dei loro nomi: oltre a Novara, centro del territorio coinvolto, comuni e frazioni circostanti, Casalino, Lumellogno, Granozzo, Nibbiola, Trecate, Romentino… Barengo sotto la collina…, e i borghi urbani ubicati oltre i resti delle mura spagnole (i “Baluardi”), Sant’Andrea, Sant’Agabio, San Rocco…

Fu un’esplosione concertata quella della violenza fascista che gli operai e i salariati contrastarono rispondendo colpo su colpo. Diciamo violenza fascista ma apprendiamo che un altro tipo di violenza dobbiamo attribuire alle guardie regie. Benché non colpevoli di delitti gravi verso i manifestanti e scioperanti antifascisti, di fatto si schierarono in favore delle bande di camicie nere e ostacolarono o bloccarono le controffensive proletarie che pur si trovavano dalla parte, per così dire, della legalità nazionale malamente rappresentata dalle forze di sicurezza.

Come spesso nelle vicende storiche di guerre, battaglie, invasioni, stermini, scattò un pretesto, ossia un’auspicata ragione delle aggressioni fasciste, ben presto diventate feroce organizzazione di assalti prima ai luoghi della socializzazione, della resistenza e del contrattacco operaio, specie i Circoli e la Camera del Lavoro, poi ai siti delle istituzioni democratiche come i municipi, quelli governati dai rossi. Il pretesto fu l’uccisione il 9 luglio 1922 a Casalino (il piccolo comune agricolo a una dozzina di chilometri dal capoluogo in direzione di Vercelli) di un giovane, Angelo Ridoni, fascista e squadrista. Di qui comincerà quella che Cesare Bermani ha voluto chiamare «battaglia di Novara» intendendola, crediamo, come reductio ad unum di molteplici scontri nelle due settimane dal 9 al 24 luglio, durante le quali si fronteggeranno la barbarie fascista e l’eroica arditezza proletaria, socialcomunista. A cominciare dalla battaglia di Lumellogno (frazione del comune di Novara fra il centro e Casalino), durante la quale si ebbero sei morti e sette feriti tra i proletari, un morto e quattro feriti tra i fascisti, si combatterono così numerose battaglie nei centri della campagna e nella città che sarebbe possibile parlare di un’altra guerra dopo la grande guerra patriottica, quella degli antifascisti novaresi contro i distruttori della già debole democrazia.

Forse unico presupposto obbligato, vincendola, per evitare al paese la caduta nel gorgo della dittatura reazionaria e criminosa che lo porterà alla rovina. Forse, diciamo, perché il nodo della contesa storico-politica è questo: se, da un punto di vista della sinistra, la battaglia di Novara fu un’avventura già prima segnata dal destino che ebbe, oppure – è la posizione di Bermani nonché di Leonetti, la stessa che tenne allora “l’Ordine Nuovo” – fu la grande occasione mancata per estendere la lotta all’intero paese, quantomeno alle città e alle regioni che ne costituivano il cardine sociale, economico, culturale, in sintesi rappresentato dalla forza della classe operaia organizzata socialmente e politicamente. Questa possibilità, dimostra Bermani, poteva darsi solo grazie a una credibile gestione della crisi politica nazionale, a una forte consapevolezza politica dell’Alleanza del Lavoro, alla fiducia dei gruppi dirigenti della sinistra.

Invece: prevalse la diffidente debolezza dei socialisti riformisti sia a Roma sia a Novara (del resto il loro ideale negava la rivoluzione), a loro importava soprattutto la caduta del governo Facta; vinse, congiuntamente, la timorosa oscillazione di comportamento dell’Alleanza del Lavoro che non seppe o non volle decidere al momento giusto lo sciopero generale a sostegno degli scioperanti di Piemonte e Lombardia. Infatti, lo decretò solo il 31 luglio, cioè a battaglia di Novara chiusa da oltre una settimana sulle macerie dei Circoli operai, della Camera del Lavoro, dei municipi e cui corpi dei compagni caduti.

«Un libro di storia non è un romanzo. […] la storia è racconto ma lo è di fatti documentati e non ricostruiti con la fantasia, bensì con rigorosi strumenti di accertamento della verità». Così l’autore nell’Introduzione (p.7). Bermani, storico del movimento operaio e del mondo popolare, votato alla ricerca tenace delle fonti, al loro utilizzo scrupoloso, a non trascurare alcun indizio, inoltre a raccogliere personalmente i resoconti orali dei testimoni dei fatti, ci dà con questo volume una prova indubitabile della sua tesi sulla storia.

Il racconto è costruito facendo intervenire direttamente i documenti, fra i quali, autentica preziosità, le storie in dialetto novarese di persone presenti agli avvenimenti (si ricordi la data della prima pubblicazione, 1972), con traduzione in appendice, e concatenandoli con propri passaggi come fossero spinte in avanti della narrazione. Cesare Bermani lo ascoltiamo come un direttore che orchestra diverse partiture e le rende coerenti con propri tocchi di autore. Che infine nelle Conclusioni, come nella “ripresa” dopo l’”esposizione” e lo “sviluppo” (per proseguire nella metafora musicale), conferma con risoluta chiarezza la propria convinzione circa l’occasione perduta di una possibile ricacciata dei fascisti. Valse, scrive, «l’incapacità dei dirigenti socialisti riformisti, abbagliati dall’ottica parlamentare, di dare [nel momento dei fatti di Novara] un’analisi corretta della situazione […], di coglierne gli aspetti nuovi. […]. Sfuggiva ai riformisti che le cose erano cambiate, che la lotta ormai non poteva che essere condotta fronteggiando il fascismo nel paese» (pp. 225-226).

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