Delocalizzazione Electrolux: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese».
L'Unità, 29 gennaio 2014
«Quando siamo entrate per la prima volta da questi cancelli facevamo 50 pezzi all’ora. Adesso siamo a 94. Il lavoro è aumentato, la paga diminuita. Ora vogliono anche il sangue». Marinella e Sabrina si stringono nei cappotti di pile e sfregano le mani guantate. Fa un bel freddo nel piazzale davanti all’ingresso nord dell’Electrolux di Porcia, in Friuli. Le due operaie, con altri 1.200 colleghi, condividono un paradossale destino: il loro posto di lavoro rischia di sparire perché sono troppo efficienti. La lavatrice che esce da queste linee costa 30 euro di troppo al pezzo. E siccome i ritmi di produzione sono già al massimo, più di 7,5 euro ad elettrodomestico non si riesce a risparmiare. Non rimane altro che mandare a casa le persone.
Nel piano draconiano della multinazionale svedese non sembra esserci posto per quello che, fino a una quindicina di anni fa, era il più grande stabilimento di lavatrici d’Europa. La Fiat del «bianco», che era arrivata a produrre due milioni e mezzo di pezzi all’anno, con marchi come Zanussi, Rex e Zoppas, e che ora, per i dirigenti scandinavi, è schiacciata dai concorrenti asiatici e polacchi. È il vento che soffia dall’Est, quello che fa più male: o vi adeguate ai salari che percepiscono i cugini della Polonia, o andate a casa, è il ragionamento che Electrolux ha presentato ai sindacati. Tagli che possono rendere le buste paga leggere, leggerissime: nell’immediato si tratta di 130-140 euro in meno, ma nel tempo i sindacati calcolano una riduzione fino al 40%. E se su Forlì (800 lavoratori), Susegana (Treviso, 1000 dipendenti), e Solaro (Milano, 900 addetti) si intende ancora investire anche se a condizioni che Fim, Fiom e Uilm bollano come inaccettabili -, alle maestranze di Porcia sembra essere negato anche questo filo di speranza. Fissata anche la deadline: entro fine aprile gli svedesi prenderanno una decisione irrevocabile.
Sciopero, è stata la risposta immediata. E ieri mattina, davanti ai cancelli erano in centinaia. Prima divisi in capannelli, in attesa degli impiegati che entrano più tardi. L’ultima battaglia si combatte tutti uniti. Gente che di sacrifici ne ha sempre fatti, da quando, nel 1984, con la vendita di Zanussi al gruppo scandinavo, «per sei mesi abbiamo dato il nostro stipendio a garanzia dei prestiti delle banche spiega Rodolfo, altro lavoratore di vecchia data -. Alle 10 arrivava il capo a farti firmare il foglio per la banca, e due ore dopo arrivava la busta paga». Adesso, lo spettro del licenziamento, «e poi ci mettono gli opuscoli sull’etica d’impresa», si lamenta un collega. Poi, certo, c’è chi ricorda che, a parte alcune linee, da troppi anni non si facevano investimenti sull’innovazione, nonostante la fabbrica resti fortemente automatizzata. «Come possiamo campare con lo stipendio di un operaio polacco? Tanto vale che ci passino una ciotola di riso per competere coi cinesi», osserva Remo. Considerazione amara, ma che contiene una grande verità: se la competizione è fatta solo sul costo del lavoro, troverai sempre qualcuno più economico di te. Lo dice bene Michela Spera, della Cgil nazionale, aprendo l’assemblea all’aperto: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese». Può rompere un argine che poi non sarebbe facile ricostruire.