». La Repubblica, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)
Molti scrittori e intellettuali, negli Stati Uniti e in Europa, si sono pronunciati sul fenomeno Trump, il più delle volte per esprimere la loro costernazione o riprovazione, condannare i suoi eccessi linguistici o allarmarsi per le sue proposte, come la costruzione di un muro al confine con il Messico o l’espulsione di milioni di immigrati clandestini. Ho voluto discutere di questo con Judith Butler, filosofa americana che ha studiato gli effetti delle parole nel discorso politico a partire dal suo testo fondamentale Parole che provocano: per una politica del performativo.
Mi sembra che Trump sia una sorta di figura simbolo delle analisi che lei produce da vent’anni. Trump come “oggetto butleriano” per eccellenza, è d’accordo?
«Non sono sicura che Trump sia un oggetto adeguato per le analisi che ho l’abitudine di condurre. Non penso, per esempio, che vi sia una fascinazione legata alla sua personalità. E se prendiamo in considerazione la sua retorica, allora è necessario analizzare piuttosto gli effetti che produce su una frangia della popolazione americana.
Ricordiamoci che è stato eletto da meno di un quarto della popolazione, e che è solo grazie all’esistenza di un collegio elettorale arcaico che si appresta a diventare presidente. Non dobbiamo quindi immaginarci che Trump goda di un largo sostegno popolare. C’è una disillusione generale nei confronti della politica e un certo disprezzo nei confronti dei due principali partiti statunitensi. Tuttavia Hillary Clinton ha ottenuto più voti di Trump. Perciò, quando ci poniamo la questione dei sostenitori di Trump, la cosa che ci dobbiamo chiedere è come sia riuscita una minoranza della popolazione americana a portare Trump al potere.
Quello su cui ci interroghiamo è un deficit di democrazia, non un’ondata di consenso popolare. La minoranza che ha sostenuto Trump, la minoranza che è riuscita a strappare un successo elettorale, ha potuto farlo non soltanto in virtù della propria disaffezione verso la politica, ma anche in virtù della disaffezione di quella metà circa di elettori che non sono andati a votare. Forse il tema di cui dovremmo parlare è la perdita di democrazia partecipativa negli Stati Uniti.
La mia opinione è che Trump ha scatenato una rabbia che ha diversi oggetti e diverse cause. Lo stato di devastazione economica e di delusione, la perdita di speranza nei confronti di un futuro economico determinato da movimenti economici e finanziari che devastano intere comunità hanno senza dubbio un ruolo importante. Ma altrettanto si può dire per l’accrescimento della complessità demografica degli Stati Uniti e le forme di razzismo, sia vecchie che nuove. Il desiderio di “fermezza” riguarda da una parte l’accrescimento del potere dello Stato contro gli stranieri, i lavoratori clandestini, ma si accompagna anche al desiderio di liberarsi del peso dello Stato, slogan che torna utile al tempo stesso all’individualismo e al mercato».
Se il fenomeno Trump può essere paragonato al fascismo è soprattutto rispetto al rapporto del leader con le masse che lo producono. In fondo, i grandi leader fascisti non avevano inventato il fascismo, ma si erano appropriati di uno scenario, quello di una piccola o media borghesia che viveva molto male il declassamento provocato dalla sconfitta militare e dalla crisi degli anni Venti, e la cui frustrazione si espresse, si saldò e trovò sfogo nell’odio per il proletariato. È un fenomeno comparabile a quello che si sta producendo negli Stati Uniti e in Europa, con il risentimento del piccolo bianco disprezzato e dimenticato a vantaggio delle minoranze visibili, nere, ispaniche, dei profughi senza documenti, delle donne e degli omosessuali.
«Forse è il momento di fare la distinzione tra le vecchie forme di fascismo e le nuove. Quelle che lei ha descritto sono le forme del fascismo europeo nella parte centrale del XX secolo.
Con Trump abbiamo una situazione differente, ma che definirei comunque fascista. Da una parte Trump è ricco, mentre la maggioranza di quelli che hanno votato per lui non lo sono. Eppure i lavoratori si sono identificati con lui, perché ha usato il sistema e ha avuto successo. Prendiamo l’esempio di com’è riuscito a sfruttare i debiti per non dover pagare le tasse. Hillary Clinton si sbagliava pensando che le persone comuni, che pagano le tasse, ne sarebbero state oltraggiate. In realtà si è guadagnato la loro ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse.
Loro vorrebbero essere come lui! Il lato fascista arriva, tuttavia, quando si arroga il potere di espellere milioni di persone, o addirittura di mandare Hillary in galera dopo il suo insediamento (su questo punto al momento ha fatto marcia indietro), di stracciare gli accordi commerciali a suo piacimento, di insultare il governo cinese, di chiedere la reintroduzione del waterboarding e di altre forme di tortura. Quando parla in questo modo, agisce come se avesse il potere esclusivo di decidere sulla politica estera, di decidere chi va in prigione, di decidere chi dev’essere espulso, di decidere quali accordi commerciali dovranno essere onorati, quali politiche estere dovranno essere disattese e quali ratificate. Allo stesso modo, quando afferma che vorrebbe picchiare o ammazzare qualcuno che lo interrompe tra la folla, rivela un desiderio omicida che, per dirlo sinceramente, tocca corde sensibili in molte persone.
Quando banalizza il sesso non consensuale o definisce Hillary una “donna meschina”, dà voce a una misoginia molto radicata, e quando giudica gli immigrati messicani degli assassini dà voce a un razzismo di vecchia data. Molti di noi hanno preso la sua arroganza, la sua boria ridicola, il suo razzismo, la sua misoginia, le sue tasse non pagate, per tratti caratteriali autodistruttivi, ma la verità è che per molte delle persone che hanno votato per lui erano cose eccitanti. Nessuno è sicuro che abbia letto la Costituzione, o che gliene importi qualcosa. È proprio questa indifferenza arrogante che attira la gente verso di lui. E questo è un fenomeno fascista. Se trasformerà le sue parole in atti, allora avremo un governo fascista».
Donald Trump ha fatto campagna elettorale in gergo, come tutti i leader fascisti, inventando il proprio “discorso sociale”, un miscuglio di facezie, smorfie, allusioni scatologiche, borbottii, slogan e anatemi.
Più che attraverso un discorso strutturato comunica attraverso segnali, un amalgama di slogan e insulti branditi come una potente arma di delegittimazione delle minoranze. Che analisi fa dello slogan di Donald Trump nel suo reality “The Apprentice”: “You’re fired” (sei licenziato, sei fuori)?
«Ancora una volta, l’atto del linguaggio presuppone che lui solo sia in grado di rifiutare alle persone il loro impiego, la loro posizione o il loro potere. Quello che è riuscito a fare, in parte, è comunicare questo sentimento di potere che si è autodelegato. Ricordiamoci anche che la collera contro le élite culturali prende la forma di una collera contro il femminismo, contro il movimento dei diritti civili, contro la tolleranza religiosa e il multiculturalismo.
Trump ha “liberato” l’odio dai movimenti e dai discorsi pubblici di condanna del razzismo: con Trump, si è liberi di odiare. Si è messo nella posizione di colui che era pronto ad affrontare la condanna pubblica per il suo razzismo e il suo sessismo e sopravvivervi. Anche i suoi sostenitori vogliono vivere il proprio razzismo senza vergogna, e questo spiega l’impennata improvvisa dei reati motivati dall’odio per strada e nei trasporti pubblici, subito dopo le elezioni: le persone si sono sentite “libere” di esprimere il loro razzismo come volevano. Partendo da qui, cosa possiamo fare per liberarci a nostra volta di Trump, “il liberatore”?».
A concentrarsi troppo sulla retorica, il lessico e la grammatica trumpiane si rischia di dimenticare una seconda dimensione, quella corporale, l’enorme “corporeità” delle sue performance nei comizi o nei talk show. Non serve aggiungere altro sulla sua pettinatura o il suo “orangismo”, ma c’è anche una gestualità molto particolare, il movimento delle mani, della bocca, un manierismo che si esprime attraverso mimiche inadatte, gesti ampollosi, una sovraesposizione della sua persona tipica dell’universo dei reality. Le statue di Trump nudo che si sono diffuse sulle piazze pubbliche delle città americane non sono la consacrazione di una forma di sacralità kitsch che prende di mira una sorta di contagio astioso, di provocazione corporale?Vedendolo pensavo alla frase di Kafka: “Uno dei più efficaci mezzi di seduzione del male è l’invito alla lotta”. Come analizza lei l’irruzione sulla scena politica di questa figura da reality?
«Sembra evidente che la presidenza diventa sempre più un fenomeno mediatico. C’è da chiedersi se molte persone non affrontino il voto con lo stesso approccio con cui affrontano le opzioni “Mi piace” e “Non mi piace” di Facebook.
Trump occupa spazio sullo schermo e questo genere di potenza minacciosa si nutre anche delle sue pratiche di molestie sessuali. Va dove vuole, dice quello che vuole e prende quello che vuole. Così, anche se non è carismatico nel senso tradizionale del termine, occupando lo schermo come fa lui guadagna in levatura e in potenza personale. In questo senso, consente un’identificazione con qualcuno che infrange le regole, fa quello che vuole, guadagna soldi, ha rapporti sessuali quando e dove vuole.
La volgarità riempie lo schermo così come vuole riempire il mondo. E molti si rallegrano di vedere questa persona maldestra e così poco intelligente pavoneggiarsi come se fosse il centro del mondo, e conquistare potere per mezzo di questa postura».
Di fronte alle accuse di menzogne, Trump si è difeso dicendo di praticare la cosiddetta “iperbole reale”, “un’esagerazione innocente, ma una forma efficace di promozione”. I media europei utilizzano sempre più spesso l’espressione “post-truth politics”, politica della post-verità, per designare l’assenza di distinzione tra vero e falso, tra realtà e invenzione, caratteristica che secondo Hannah Arendt era il tratto distintivo del totalitarismo. I social network avrebbero creato un nuovo contesto caratterizzato dall’apparizione di bolle informative indipendenti le une dalle altre, spazi chiusi che si prestano alle dicerie più folli, al complottismo e alla menzogna. E impermeabili al “fact-checking” dei media. Durante la sua campagna Trump ha saputo rivolgersi, attraverso Twitter e Facebook, alle sue piccole repubbliche del risentimento, e federarle creando un’onda sovreccitata. Lei che cosa pensa del concetto di “politica della post-verità”?
«In un modo o nell’altro, non riesco a credere che siano parole dello stesso Trump, ma di qualcuno che cerca di normalizzare e perfino di approvare la sua relazione disinvolta con la verità. Non sono sicura che ci troviamo in una situazione di post-verità.
A me sembra che Trump si scagli contro la verità, e metta bene in chiaro che non pretende di sostenere le sue affermazioni con le prove, né le sue proposte con la logica. Le sue dichiarazioni non sono totalmente arbitrarie, ma è pronto a cambiare posizione continuamente, legandosi unicamente all’occasione, al suo impulso e alla sua efficacia. Per esempio quando ha detto di Hillary Clinton che una volta diventato presidente la “getterebbe in prigione”, è stato acclamato da quelli che la odiavano, anzi questo ha consentito loro di odiarla ancora di più.
Naturalmente non ha il potere di “gettarla in prigione”, e non ne avrà il potere neanche come presidente, senza una procedura penale piuttosto lunga e il giudizio di un tribunale. Ma in quell’istante lui è al di sopra di qualsiasi procedura giuridica, esercita la sua volontà come crede e traccia il modello di quella forma di tirannia che non si preoccupa realmente di sapere se Hillary abbia commesso un reato penale. Al momento, i fatti sembrano indicare che non è così. Ma lui non vive in un mondo di fatti. Le sue affermazioni sul fatto che Hillary Clinton non avrebbe vinto il voto popolare senza i milioni che illegalmente hanno votato per lei non possono essere dimostrate, ma in quel momento lui espone in pubblico la sua ferita narcisistica e cerca di delegittimare il voto popolare.
Contestualmente, scarta del tutto l’idea che i voti in suo favore possano essere illegali. Ha poca importanza se si contraddice o se si capisce che rigetta esclusivamente le conclusioni che intaccano il suo potere o la sua popolarità. Questo narcisismo sfrontato e ferito e questo rifiuto di sottomettersi ai fatti e alla logica lo rendono ancora più popolare. Lui vive al di sopra della legge, ed è così che molti dei suoi sostenitori vorrebbero vivere».
Dopo il 2011 abbiamo visto rinascere, su scala internazionale, movimenti di piazza come Occupy, gli Indignados, la Nuit Debout, le Primavere Arabe… Nel suo ultimo libro, “Notes toward a Performative Theory of Assembly”, lei analizza le condizioni che hanno portato alla comparsa di questi movimenti e le loro implicazioni politiche, estendendo le sue analisi sulla performance politica. Quando dei corpi si radunano in piazza, scrive, sono dotati di un’espressione politica che non si riduce alle rivendicazioni o ai discorsi tenuti dagli attori. Quali sono le forze che impediscono o rendono possibile un’azione plurale di questo genere? Qual è la natura democratica di questi movimenti?
«“Comparsa” forse non è la parola più adatta per tradurre l’inglese appearance, ma bisogna convivere con i fantasmi della lingua.
Le manifestazioni e le riunioni spesso non bastano a produrre dei cambiamenti radicali, ma modificano la nostra percezione di cos’è il “popolo” e affermano le libertà fondamentali che appartengono ai gruppi nella loro pluralità. Non può esserci democrazia senza libertà di manifestazione, e non può esserci manifestazione senza libertà di movimento e di riunione.
Questa libertà presuppone dunque la mobilità fisica e la capacità. Tante manifestazioni pubbliche contro l’austerità e la precarietà presentano dei gruppi, in strada e allo sguardo del pubblico, che subiscono essi stessi un declassamento e una privazione di diritti. Inoltre, manifestando in quel modo affermano l’azione politica collettiva. Perciò, se siamo in grado di pensare alle assemblee parlamentari come parte integrante della democrazia, siamo in grado anche di comprendere il potere extraparlamentare delle manifestazioni di modificare la concezione pubblica di cos’è il popolo.
Soprattutto quando compaiono persone che teoricamente non dovrebbero comparire ci rendiamo conto che in qualsiasi discussione su chi è il popolo la sfera dell’apparenza e i poteri che controllano le sue frontiere e le sue divisioni vengono dati per scontati».
Michel Foucault analizzava la crisi della democrazia a cavallo del V e del IV secolo avanti Cristo ad Atene al tempo stesso come un problema discorsivo, il paradosso del “parlare con franchezza” in democrazia (la “parrèsia” è pervertita) e come uno spostamento della “scena” del politico dall’agorà all’“eklèsia”, cioè dalla città dei cittadini alla corte dei sovrani. Lo sviluppo di queste nuove scene democratiche comparse a partire dal 2011 può essere considerato una rivincita dell’agorà sull’“eklèsia”?
«Prima di chiederci che cosa significa parlare con franchezza al potere dobbiamo chiederci chi può parlare.
A volte, la presenza stessa di coloro che teoricamente dovrebbero restare muti nel discorso pubblico finisce per oltrepassare queste strutture. Quando gli immigrati clandestini manifestano, o quando le vittime di espulsioni si riuniscono, o quando quelli che subiscono la disoccupazione o tagli drastici alla loro pensione si mettono insieme, si iscrivono nell’immaginario e nel discorso in un modo che ci dà un’idea di cos’è o cosa dovrebbe essere il popolo. Certo, presentano delle richieste specifiche, ma mettersi insieme è anche un modo di presentare una richiesta fisica, una rivendicazione che prende corpo nello spazio pubblico e una richiesta pubblica ai poteri politici.
Quindi, in un certo modo, dobbiamo entrare nel dibattito prima di poter parlare con franchezza al potere. Dobbiamo spezzare i vincoli della rappresentanza politica, per svelare la sua violenza e opporci alle sue esclusioni. Fintanto che l’argomento della “sicurezza” continua a servire come giustificazione per l’interdizione e la dispersione delle manifestazioni, delle riunioni e degli accampamenti, la sicurezza sarà usata per decimare i diritti democratici e la democrazia stessa. Solo una mobilitazione su larga scala, una forma di coraggio incarnato e transnazionale, si potrebbe dire, riuscirà a sconfiggere il nazionalismo xenofobo e i vari alibi che oggi minacciano la democrazia».
Traduzione di Fabio Galimberti