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Vittorio Emiliani
Pompei non ha bisogno di manager
9 Novembre 2013
Beni culturali
Ci vuole un po' di pazienza: per trasformare i beni in merci bisogna sminuzzarli, plasticarli, trasformarli in scenari per spettacoli in costume. Insomma, distruggerli. Per questi mestieri meglio un manager che un archeologo, o comunque un esperto di beni culturali.

L'Unità, 9 novembre 2013Il dramma di Pompei rischia, come spesso accade in Italia, di trasformarsi in commedia e peggio. Ci sono i mezzi finanziari provenienti dall’Europa, ma se ne vogliono convogliare altri, privati, italiani e stranieri, e per questo si ritiene che la persona più adatta a gestire questa cornucopia non sia un archeologo pur dotato di competenze gestionali (ve ne sono), ma un manager. Come l’ambasciatore Giuseppe Scognamiglio, già consigliere diplomatico di Enrico Letta al tempo in cui era ministro, ed ora vice-presidente di Unicredit. Questa sarebbe la posizione del presidente Letta. Il ministro dei beni culturali, Massimo Bray non pare convinto, teme che un ambasciatore senza competenze specifiche possa non fare decollare il Grande Progetto Pompei previsto dal peraltro discusso decreto Valore e Cultura.

E’ intervenuto Salvatore Settis archeologo e, fra le altre cose, direttore per anni del Getty Research Institute, a perorare la nomina di un archeologo che abbia cultura gestionale. Il Mattino di Napoli ha messo in campo adeguate artiglierie per smantellare la tesi di Settis e sostenere invece la necessità assoluta di nominare subito un manager alla Scognamiglio. Pochi ricordano ormai che la Soprintendenza speciale di Pompei fu creata, assieme a quella di Roma, anni fa (ministro dei Bc, Walter Veltroni) con un soprintendente archeologo e un city manager. La diarchia non ha funzionato, anche perché, dopo una certa data, si sono nominati generali dei carabinieri (più utili se applicati alla lotta alla camorra che controlla la zona, Pompei inclusa) o addirittura commissari di nessuna cultura archeologica (tantomeno pompeiana) sulla base di una “emergenza” proclamata dalla Protezione civile di Bertolaso e poi seccamente negata dalla Corte dei conti. Quest’ultima, esaminati i documenti dell’«emergenza» soltanto alla scadenza del mandato di Marcello Fiori, ha emesso un giudizio «postumo» dei più negativi. L’intera gestione commissariale tra il 2008 e il 2010, ha scritto infatti la Corte, «non sembra rispondere all’esigenza di tutelare l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinino situazioni di grave rischio». Somme ingenti finirono in un “restauro” raggelante del teatro romano, un tempo di tufo e marmo, ora di cemento, altre in musei virtuali, in piste ciclabili e via pedalando fra le rovine.

Rovine bisognose di attenzioni specialissime – come Stabia ed Ercolano – perché le “insulae” e i mosaici, gli affreschi contenuti nella varie dimore sono stati per un paio di millenni sotto una coltre di pomice senza conoscere quindi le mutazioni e le avversità climatiche. A differenza dell’archeologia in parte interrata, in parte no, di aree archeologiche paragonabili per vastità (Ostia Antica, per esempio). Molto, troppo forse si è scavato a Pompei anche perché la camorra scoprì decenni fa il business della pomice. Inoltre negli anni 50 si sono operati “restauri” con materiali cementizi che hanno peggiorato lo stato complessivo di conservazione dei manufatti, soprattutto davanti all’intensificarsi di piogge improvvise e violentissime. Ad imporsi oggi non è tanto un discorso di quantità, di provvista finanziaria, quanto di qualità tecnico-scientifica degli interventi, della loro programmazione, delle priorità da stabilire. Cosa c’entra un manager, di buona cultura bancaria, con tutto ciò? Nella vicina Ercolano le cose vanno assai meglio che a Pompei perché il flusso regolare dei finanziamenti è stato assicurato da un mecenate americano che non vuole “ritorni” pubblicitari e il piano dei lavori è stato definito e attuato dalla Soprintendenza. O no? E a Roma stessa, schivato il rischio di Bertolaso commissario, i lavori non sono andati a buon fine con Proietti e con Cecchi, due tecnici?

Ma i sostenitori della managerialità (gli stessi che parlano del “nostro petrolio”) non si rassegnano facilmente. Hanno applaudito l’arrivo al Collegio romano di un manager, Mario Resca, il quale veniva da aziende importanti nel loro ramo: McDonalds’, il Casino di Campione, o Finbieticola. Doveva “valorizzare” i beni culturali nazionali. Ha combinato qualcosa? A guardare le pubblicità “valorizzatrici” che ci sollecitavano a correre a vedere il Colosseo o il Cenacolo di Leonardo prima che ce li portassero via, pare proprio di no. Per non parlare del rinnovo delle concessioni dei servizi aggiuntivi dove le convenzioni approntate da Resca sono state mitragliate di ricorsi al Tar e giacciono al suolo inanimate (e prorogate). Se questi sono i manager della cultura, aridàtece er Soprintendente. Che sia bravo, certo. E che abbia gli strumenti per snellire le operazioni programmate con rigore scientifico oltre che finanziario.

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