Non ci resta che questo se vogliamo vivere, giacché non ci fidiamo dei falsi accordi internazionali (scordati) fra sconosciuti personaggi nelle discussioni sul clima, in verità ridotte a: se accettare o no (segue).
Non ci resta che questo se vogliamo vivere, giacché non ci fidiamo dei falsi accordi internazionali (scordati) fra sconosciuti personaggi nelle discussioni sul clima, in verità ridotte a: se accettare o no un certo aumento, o un altro, della temperatura (media del globo?).
Piantare alberi dappertutto, negli spazi aperti aridi definitivamente persi per sempre all’agricoltura (anche un misero filo d’erba contribuisce alla sintesi clorofilliana) e nelle città cementate senza tregua dal dopoguerra a oggi, in ogni lacerto di terreno (terra) ancora libero o cercando di spaccarne la coltre mortale che le ricopre.
Una studentessa universitaria di archeologia nel n. 1, gennaio 2019, del bimestrale «il novarese» ci avvisa che le foglie delle piante assorbono l’anidride carbonica e altri inquinanti atmosferici e rilasciano in cambio ossigeno pari a un fabbisogno (se l’albero è cresciuto bene) di dieci persone. Cito la giovane Marina De Pieri non tanto per questa funzione arborea, risaputa, ma perché conosce una legge nazionale di enorme importanza riguardo alla piantumazione: la n. 113 del 29 gennaio 1992 che obbliga i Comuni a porre a dimora un albero per ogni nato, con registrazione sul certificato di nascita. Qualcuno ha mai verificato il rispetto di quest’obbligo almeno in una parte dei 7.982 Comuni? Non lo sappiamo. A Novara l’attesa è stata tradita di là da ogni scusante: dal varo della legge a oggi, cita De Pieri, i nuovi alberi avrebbero dovuto essere circa 40.000, mentre il totale delle presenze comprese le vecchie piante arriverebbe solo a 15.600: numero così basso che suscita dubbi sulla capacità/volontà di contarle degli «uffici competenti» (unica fonte della ricerca).
Milano: dapprima possiamo valerci di un vecchio, magnifico libro illustrato a colori (librone 30x21 cm) di Fabrizia Gianni, Via per via gli alberi di Milano. Quali e dove sono i 160.000 alberi della città (Edizioni Il Mondo Positivo, Milano 1987). Poi, proviamo a stimare la consistenza attuale del patrimonio arboreo nel territorio comunale mediante l’applicazione della legge. Del resto l’amministrazione milanese ha potuto giovarsi della scarsa natalità, e della generale regressione demografica dopo il vertice di popolazione del 1972. Ad ogni modo, calcolando il totale dei nati dal 1987 al 2018 secondo una media annuale di 12.000 (tasso di natalità circa 0,8 %, dimostrativo dell’incapacità riproduttiva di un gruppo umano) si sarebbero dovuti piantumarne 384.000 alberi. Aggiunti ai 160.000 (considerati tutti sopravvissuti) costituirebbero un discreto patrimonio arboreo di 544.000 unità.
Benché ora si possano ricavare diverse informazioni dal Geoportale comunale, riguardo alla quantità totale di piante possiamo solo affidarci a una «mappa [in cui] sono indicizzati 235.000 alberi gestiti dal Comune»: gli unici che sono dotazione pubblica, (altre eventuali «gestioni», evidentemente private se esistessero, non possono rientrare nella nostra analisi). Saremmo dunque alla presenza di una risorsa di poco superiore al 40 % di quella conforme agli obblighi di legge, quando dovremmo pretendere, in una condizione pessima dell’aria cui dobbiamo giornalmente sottostare, l’adeguamento a un vecchio modello dell’urbanistica ecologica: obiettivo per il verde urbano un albero per ogni abitante. Traguardo ora difficilmente raggiungibile per mancanza di superfici di impianto, anche supponendo di ricuperarne da infrastrutture ripristinabili a terra adatta (non agraria). Eppure se progettassimo pezzi di bosco fittissimo, da naturalismo massimamente disordinato (magari venti essenze per dieci mq), potremmo credere nell’avvicinamento al risultato.
Elzéard Bouffier è il pastore protagonista di un incantevole racconto scritto da Jean Giono nel 1958 a Manosque in Provenza, L’Homme qui plantait des arbres. Conosciamo due edizioni italiane, la prima di Libri Sheiwiller, Milano 1995, con titolo di fantasia, L’uomo che piantò la speranza e crebbe la felicità, tuttavia poeticamente non estraneo al contenuto, la seconda di Salani Editore, Firenze 1996-98, titolo L’uomo che piantava gli alberi, testo seguito da un’interpretazione di Tullio Pericoli attraverso colorati disegni a piena pagina, se non doppia o tripla. L’io narrante incontra Bouffier prima della Grande Guerra, lungo le chine aride e desolate dell’Alta Provenza, versanti delle Alpi che scendono verso regioni francesi deserte, terra sterile e incolore dove cresceva solo lavanda selvatica. Quale compito si era dato il solitario occupante di terre abbandonate? Dove un paesetto denominato Vergons aveva nel 1913 solo tre abitanti ridotti a creature selvagge in mezzo alle rovine? Voleva ricostruire i boschi come in antico. Preparava ghiande di quercia, separava le buone fino ad averne cento in un sacchetto da tenere in un secchio d’acqua. S’arrampicava sulla cresta, ficcava un bastone di ferro nel terreno, metteva una ghianda nel buco e la ricopriva. Esaurita la scorta ripartiva da capo, magari dopo aver consumato il suo spartano pranzo nella sua casetta. Nei primi tre anni aveva piantato centomila alberi in quel deserto, ventimila erano nati e crescevano.
Il racconto attraversa le vicende della storia europea. Il piano del nostro uomo, se così si può dire, continuerà a realizzarsi, le guerre sfioreranno appena quelle terre quasi sconosciute. Alle querce si aggiungeranno altre essenze, specialmente faggi. A dieci anni dall’inseminazione con le ghiande il narratore vede già uno spettacolo impressionante: «passammo l’intera giornata a camminare in silenzio nella sua foresta. In tre sezioni misurava undici chilometri in lunghezza e tre in larghezza». Il pastore lavorava incurante giacché una sorta di reazione a catena creava la nuova realtà, il vento aiutava a distribuire i semi, ritornava l’acqua nei ruscelli asciutti da secoli. Fortunatamente, quando a metà degli anni Trenta delegazioni ufficiali si accorsero della trasformazione di una intera ragione per opera di un solo uomo, la forza delle cose s’impose e i burocrati non fecero danni. Durante la guerra del 1939 l’enorme lavoro correrà un serio pericolo, infatti si comincerà a tagliare le querce piantate nel 1910 per far legna. A causa della lontananza della ferrovia l’impresa sarà abbandonata.
Il narratore incontrerà per l’ultima volta Elzéard a giugno del 1945. Tutto è cambiato. Un nuovo paesaggio esteso ai quattro orizzonti rendeva incerto il ricordo di una regione tutta rovine e desolazione. Ricostruito il villaggio di Vergons, eretti nuovi casolari. Cambiata anche l’aria. Soffiava un venticello profumato. «Un suono come d’acqua veniva dalla montagna; era il vento della foresta». Il vecchio pastore morirà tranquillo in un ospizio nel 1947. Passati solo otto anni dal 1939 e quasi quaranta dal primo impianto delle ghiande, tutta quella regione era diventata splendente di salubrità e di prosperità. «Più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier».
Disegno di Tullio Pericoli |
Giovannino Semedimela è una figura dell’idealizzazione americana, allegoria di un desiderio o volontà di far vivere la terra per far vivere l’umanità. A confronto del pastore provenzale che nel racconto di Jean Giono percepiamo come persona vivente, quasi un nostro avo appartenente alla storia e geografia (se così si può dire) d’Europa, Semidimela ci pare fiabesco, se non al servizio di un apologo per la classe media. Philip Roth, il prolifico autore di romanzi incentrati sulle diverse facce e le contraddizioni della società americana, più efficaci di tanti testi sociologici, ce ne fornisce un abbozzo in Pastorale americana (orig. 1997, Einaudi super ET 1998, 2013): «Grande camminatore, non doveva essere altro. Tutto piacere fisico. Aveva una bella falcata, un sacco di semi e un affetto grande e spontaneo per il paesaggio, ovunque andasse spargeva i suoi semi. Andava dappertutto a piedi… Giovannino Semidimela, là a piantare meli…».
È però dal primo che trarremo la forza fisica e morale per assolvere il dovere dichiarato.
Che deve riguardare, a questo punto, l’aspetto biofisico, ossia la funzione di protezione del terreno e di condizionamento dell’ambiente, preminenti per salvare o ricostituire un buon assetto delle pendici montane e collinari. Infatti, l’Italia è costituita per il 40 per cento da montagne, il 40 per cento da colline, solo il 20 per cento da pianure. Non è poi lontanissimo il passato in cui tutte le pendici e parte delle pianure erano coperte densamente da boschi e foreste naturali. Sono miriadi le cause che ne determinarono la distruzione, man mano tanto più estesa quanto più si affermava il cosiddetto sviluppo economico e una presunta modernizzazione. Se ne cerchiamo un simbolo, lo troviamo nella spaventosa abolizione della coltre di boschi e foreste sulle Alpi e sugli Appennini per sostituirla con enormi superfici innevate lisce come il panno di un bigliardo, lunghe e larghe prive del minimo ostacolo alla pratica dello sci. Convertite da piste ad autostrade, è stato detto da una vecchia guida alpina della Valfurva (patente quarantennale).
Termino con un raccontino. Coppa del Mondo di sci alpino 2000, a Bormio (conclusa il 19 marzo). Il programma per l’assetto delle piste richiedeva l’abbattimento di una spaventosa quantità di pini, non meno di 100.000. Non bastarono proteste e opposizioni manifestate immediatamente non solo dai movimenti ecologisti. Si mobilitò anche una parte della popolazione valtellinese. Al contrario, tutti i giornali, locali e nazionali, sostennero la necessità della distruzione, di sicuro ricompensabile mediante certi vantaggi economici. Gravissimo fu l’allineamento dell’Unità, nonostante la perplessità o la negazione di qualche redattore. Laura Conti, medico, ecologista, comunista, deputata della X legislatura intervenne con un inconfutabile articolo sul quotidiano, ma la risposta fu soltanto una serie di lodi paternalistiche. La critica da parte mia la concentrai in una lettera al direttore aspettandomene la pubblicazione. Che non avvenne. Il direttore, Sergio Staino (questa stessa nomina mostrava a che punto fosse giunta la crisi del giornale) mi scrisse direttamente menando il can per l’aia. Intanto si stagliava all’orizzonte la nemesi, che piombò sul giornale il 28 luglio e lo chiuse.
In memoriam Jean Giono
Milano, 19 marzo 2019