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Pesanti critiche al decreto sullo "sviluppo"
13 Maggio 2011
Articoli del 2011
Reazioni autorevoli alle sconce proposte dell’ignobile decreto per la privatizzazione delle spiagge, Corrado Zunino e Tito Boeri su la Repubblica, Alberto Ziparo su il manifesto, 12 maggio 2011

La Repubblica

"Il decreto spiagge scritto sotto dettatura degli stabilimenti"

di Corrado Zunino

ROMA - Chiamato da tutto l’arco ambientalista a esprimersi sul "decreto spiagge", il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha mostrato dubbi. Le sue perplessità sono centrate, innanzitutto, sulla necessità di ricorrere allo strumento del decreto (che richiede requisiti di straordinaria necessità e urgenza), in particolare per alcuni articoli dell’atto. Quindi, l’attribuzione del diritto di superficie ai possessori della licenza per i prossimi 90 anni è un argomento che la presidenza della Repubblica non ha gradito. Sull’ultimo lavoro di Giulio Tremonti, Napolitano ha chiesto uno studio del Nucleo valutazione del Quirinale - il segretario generale e alcuni consiglieri - immaginando di poter indicare alcune anomalie e correzioni possibili, senza mettere in discussione la sua firma.

Ieri è stata Italia Nostra ad appellarsi al presidente della Repubblica. «Questa sorta di privatizzazione dei beni demaniali ad uso e consumo di chi intende speculare su di essi», ha scritto l’associazione, «chiaramente contrasta con l’articolo 9 della Costituzione, che prevede che la Repubblica tuteli il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». Il Wwf e il Fondo ambiente italiano, a dimostrazione della contraerea alzata da tutti gli ambientalisti, hanno disvelato invece la scrittura del decreto «sotto la dettatura dell’Assobalneari».

Così le due associazioni raccontano il copia e incolla del governo: «Fatti e documenti parlano chiaro, il 27 gennaio 2010 in un incontro con il ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla, l’Assobalneari, costola di Confindustria turismo, ha consegnato una nota dal titolo "Il nuovo demanio marittimo: gli obiettivi di Assobalneari Italia"». In quel papiello si chiedevano sostanzialmente tre cose: la proroga delle concessioni in essere sino al 2015, l’introduzione del diritto di superficie sul demanio marittimo e le previsioni di concessioni demaniali cinquantennali. Due richieste su tre sono state rispettate alla lettera: le concessioni al 2015, già contestate dall’Unione europea, e l’introduzione del diritto di superficie sulla battigia. Sulle concessioni di lungo periodo il governo ha praticamente raddoppiato: 90 anni, a fronte della richiesta imprenditoriale di 50 anni. Wwf e Fai sostengono ora: «Il governo agisce sotto dettatura dell’Assobalneari».

Le associazioni ecologiste ricordano il "boom" contemporaneo delle spiagge private italiane: tra il 2001 e il 2010 gli stabilimenti balneari sono raddoppiati passando da 5.368 a 12.000 «e per molto tempo le concessioni sono state assegnate direttamente», tanto da richiamare l’intervento dell’Unione europea. Il modello che va profilandosi, dicono, «è quello delle cittadelle del divertimento: piscina, palestra, sauna, bar, ristorante, discoteca, negozietti oltre a spogliatoi, cabine, bagni e docce. Ombrelloni e sdraio, ormai, sono solo l’ammennicolo che giustifica la concessione demaniale».

Angelo Bonelli, pioniere degli esposti a Napolitano, aggiunge: «La criminalità organizzata potrebbe avviare una imponente operazione di conquista del demanio perché ha forti capitali da poter riciclare. Ci sono tutte le condizioni affinché la Direzione nazionale antimafia presti attenzione a questo provvedimento». Federconsumatori studia un ricorso alla Corte costituzionale: «Continuiamo a considerare allucinante una norma che prevede il regalo delle nostre coste agli stabilimenti balneari», dice il presidente Rosario Trefiletti.

Raffaele Fitto, ministro degli Affari regionali, assicura che in realtà il presidente della Repubblica non ha perplessità, «solo ha chiesto di comprendere i contenuti del decreto». E così l’Europa: «Hanno detto "leggerò il decreto", ma non prendono una posizione. Puntiamo a un confronto con la Commissione europea per spiegare i contenuti specifici del nostro paese».

la Repubblica

Spiagge, legge sotto dettatura

di Tito Boeri



I nostri governanti sono stati spesso accusati di mancanza di lungimiranza, ma stavolta bisogna davvero ricredersi.

Il decreto sullo sviluppo varato la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri guarda lontano, molto lontano. Stabilisce, infatti, a chi saranno affidate le concessioni demaniali sulle nostre spiagge fra ben 90 anni. Non ci sarà nessuna gara in cui le concessioni vengano offerte al miglior offerente, ma una semplice proroga delle concessioni in essere. Le tariffe verranno negoziate solo dopo che la proroga è stata concessa, quando dunque i gestori hanno tutto il potere contrattuale dalla loro. Il tutto, come il Quirinale avrebbe già fatto notare, avviene in palese violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza. La famosa direttiva Bolkenstein, quella che sin qui aveva evocato altri generi acquatici (molti si ricorderanno della paventata invasione degli idraulici polacchi dopo l’implementazione della direttiva), prevede infatti che le concessioni abbiano durate molto più brevi (tra i 5 e 10 anni) e vengano rinnovate con vere e proprie gare. I beneficiari delle norme approvate dal Consiglio dei ministri sono circa 24.000 operatori, tra stabilimenti balneari, alberghi e campeggi, che si tramandano questo patrimonio di generazione in generazione.

Per una volta si è voluto pensare ai figli, anche a quelli che devono ancora nascere, ma solo ai loro. Se lo vorranno, potranno avere un futuro balneare con rendite molto elevate: un metro quadro di spiaggia viene sub-affittato a prezzi anche 50 volte superiori a quelli pagati per la concessione. Se avranno altri piani, potranno rivendere la concessione, un capitale che li metterà per sempre al riparo dal precariato di figli meno fortunati. Nella legislatura del federalismo, gli enti locali si vedono costretti a rinunciare a entrate cospicue, trasferendo patrimoni e redditi a operatori che molto spesso (pensiamo ai litorali sardi) vivono a centinaia di chilometri di distanza. I residenti dovranno, invece, pagare tasse più alte per avere spiagge presumibilmente tenute peggio e servizi di ristoro (sono loro, anziché i turisti, i principali consumatori) molto più cari.

Ci si chiederà cosa tutto ciò abbia a che vedere con lo sviluppo del Paese che il decreto vorrebbe favorire. Ma, a ben guardare, la norma sulle spiagge è tutt’altro che un’eccezione nel dispositivo. Non c’è nessuna traccia del preannunciato pacchetto liberalizzazioni per benzina, farmaci e assicurazioni. E, leggendo con cura tra le righe (grazie al lavoro certosino di Angelo Baglioni, Luigi Oliveri e Stefano Landi su www.lavoce.info), ci si accorge che sono davvero tante le norme che proteggono chi oggi occupa posizioni di rendita.

In nome della semplificazione, si rinuncia ad esempio alle gare per le opere fino a un milione di euro (raddoppiando il valore degli appalti per i quali si possa procedere a trattativa). Questo significa meno concorrenza e meno trasparenza al tempo stesso. La vera semplificazione richiederebbe interventi su vincoli operativi e burocratici presenti nel codice dei contratti, a partire dai tempi della programmazione e a quelli per la stipula dei contratti, ben più lunghi di quelli richiesti per lo svolgimento delle gare. Invece si opta per ridurre la concorrenza e la trasparenza favorendo pratiche collusive ai danni della collettività.

Un altro esempio liquido è quello delle norme sui mutui. Sembrano andare incontro alle famiglie povere che hanno contratto mutui a tasso variabile, permettendo loro di ridurre le spese per interessi ora che i tassi stanno salendo e che molte di loro si trovano in condizioni finanziarie difficili. Ma, a guardar bene, ci si accorge che si tratta solo di un’assicurazione contro il rischio di un ulteriore aumento dei tassi, che potrebbe rivelarsi anche molto costosa per le famiglie (nel passaggio da variabile a fisso le rate dovrebbero aumentare mediamente del 20 per cento). Infatti, la rinegoziazione dei mutui non congela affatto i tassi ai livelli attuali, ma al livello stabilito sulla base "delle aspettative del mercato sulla dinamica futura dei tassi". Solo se i tassi dovessero salire di più di quanto già oggi si prevede potranno esserci vantaggi per le famiglie in un futuro che potrebbe comunque essere lontano.

Oltre alla presa in giro, c’è anche la beffa. Fissando un livello a cui rinegoziare i mutui, la legge facilita la costruzione di un cartello di banche, che potranno così allinearsi ai prezzi stabiliti dal decreto.

Insomma, col decreto sviluppo, il governo ha deciso che, non solo non ci saranno riforme (lo sapevamo già dal silenzio-assenso a riguardo del cosiddetto Piano nazionale delle riforme), ma che addirittura si faranno passi indietro sul piano delle liberalizzazioni. C’è poco da stupirsi. Un governo fragile, diviso e distratto è ostaggio delle lobby, dall’Abi, all’Ance, all’Assobalneari. Sapevano bene, loro che di litorali se ne intendono, che per il governo questo decreto era l’ultima spiaggia. Pur di avere il loro accordo, era disposto a tutto, anche a farsi dettare il testo di legge.

il manifesto

Il paesaggio è un bene costituzionale

di Alberto Ziparo

Fanno bene ambientalisti e movimenti di difesa del territorio a chiedere a Giorgio Napolitano di non firmare il Decreto Sviluppo, visti i contenuti espliciti di apertura alla privatizzazione ed alla cementificazione di un bene paesaggistico primario quale la fascia costiera. Va ricordato infatti che il paesaggio è tutelato ai sensi dell'articolo 9 della Costituzione ed è compreso nel Titolo I, in quanto «principio fondativo» dell'ordinamento statale. Questa assunzione non fa una "ubbia culturalista" dei costituenti, ma il riconoscimento dell'esistenza di una legislazione sulla tutela di beni culturali e ambientali assai avanzata, di riferimento per tutti gli stati occidentali, che aveva - ancora prima della Costituzione - già segnato dettati normativi importanti con le leggi sui beni culturali e il paesaggio del 1909, del 1922 (qualche mese prima della Marcia su Roma) e soprattutto con i due provvedimenti del 1939.

L'Italia è stata infatti la prima nazione al mondo a "costituzionalizzare" il paesaggio - sottolinea Salvatore Settis - ricordando così che la citata normativa post-unitaria e prima le tante leggi che avevano contrassegnato le diverse entità istituzionali che contrassegnarono l'Italia preunitaria - dallo Stato Pontificio a Firenze, dal Regno borbonico a quello savoiardo - sancivano «l'acquisizione sociale e culturale» del patrimonio paesaggistico quale categoria da tutelare ex legge, in quanto «espressione identitaria degli italiani nel loro costituirsi come cittadinanza».

Oggi il Codice (Decreto Urbani del 2004 e successive) dichiara che tra gli elementi fondamentali del patrimonio paesaggistico statale, tra i «temi paesaggistici» «di primario interesse nazionale», c'è la fascia costiera che «per i 300 metri dalla linea di battigia» (molte Regioni hanno esteso tale area di rispetto) viene tutelata integralmente. Il Codice ha sancito la necessità di salvaguardia assoluta di un bene, anche perché lo stesso era già largamente compromesso: il nostro paesaggio costiero è infatti abbrutito ed imbruttito da abusi, costruzioni in deroga, possibilità di esulare dai vincoli nei centri urbani, situazioni preesistenti alla norma. Tuttavia la legge ha inteso negli anni ribadire l'esigenza di salvaguardia «almeno degli ambiti non compromessi» e di recupero «dei brani già alterati» di paesaggio costiero, richiamandone la valenza costituzionale. Una censura del Presidente della Repubblica, prima degli inevitabili ricorsi alla Consulta, sarebbe quindi atto dovuto, più che giustificato.

Il Decreto sullo sviluppo, espressione tipica della dittatura dell'ignoranza che contraddistingue i nostri anni, pretende di risolvere, con modi superficiali quanto volgari, una delle maggiori querelle di politica dei suoli nazionale: il nodo storicamente critico tra diritti «di proprietà e di superficie» che ha sovente problematizzato fino all'ingestibilità l'urbanistica italiana. Il riformismo territoriale ha infatti assunto quanto stabilito dalla legislazione "progressista" fin dal 1967: «Il titolo di proprietà non da' diritto di disporre della destinazione d'uso di un suolo, in quanto i diritti di superficie sono stabiliti dallo strumento urbanistico, rappresentante dei superiori interessi della collettività». Questa norma è stata oggetto di contenziosi e conflitti infiniti, anche prima del 1980, quando la Corte Costituzionale, proprio sottolineando che il territorio - a differenza del paesaggio - non è inserito tra i «fondamenti» dell'ordinamento statale (la Costituzione ne tratta all'articolo 117), non legittima la supremazia della tutela dello stesso «quale interesse collettivo» superiore a quelli legati alla proprietà. Di qui la rimessa in discussione degli stessi vincoli urbanistici e previsioni dei piani, «in attesa di una prossima riforma generale del regime dei suoli», eternamente di là da venire.

Oggi il nostro ineffabile esecutivo risolve questo nodo al contrario: il diritto di superficie può essere differito da quello di proprietà, ma non «per superiori interessi collettivi», bensì per «superiori interessi speculativi», nella fattispecie di operatori turistici e costruttori. Se l'ambito in questione è inserito in distretti turistici da "valorizzare" può essere edificato o trasformato; al di là di qualsiasi tutela paesaggistica e destinazione urbanistica. Siamo al delirio.

Nel merito della questione, se i nostri ministri leggessero le statistiche sul consumo di suolo, sull'edilizia vuota ed inutilizzata, e sul fatto che - a dispetto della cementificazione delle spiagge - ormai in molte località gli hotel non si riempiono nemmeno a ferragosto, forse rifletterebbero sull'insensatezza delle loro proposte.

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