Il Sole 24 ore, 21 aprile 2015
Settecento morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato 18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande sterminio in mare dal dopoguerra, dopo i 366 morti del 2013 a Lampedusa. Inutile snocciolare i numeri delle scorse settimane, le percentuali in costante aumento: sempre giunge l’ora in cui il numero acceca la vista lunga, indica e al tempo stesso cancella le persone. Enumerare non serve più, se non chiamiamo a rispondere gli attori politici del dramma: la Commissione europea, gli Stati dell’Unione, l’Alto Commissariato Onu. A tutti va ricordato che le normative sul soccorso dei naufraghi e sul non-respingimento sono divenute cogenti in contemporanea con l’unificazione europea, in memoria del mancato soccorso alle vittime dei genocidi nazisti. Sono la nostra comune legge europea.
A questi attori bisogna rivolgersi oggi con una preliminare e solenne richiesta: smettete l’uso di parole altisonanti; passate all’azione; non reagite con blocchi navali che tengano lontani i fuggitivi dalle nostre case, come si tentò di tener lontani gli ebrei in fuga dal nazismo. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi il più grande sterminio in mare dal dopoguerra occorre mettere la parola urgenza, al posto di emergenza. Bisogna dare alla realtà il nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace, commessi dall’Unione europea, dai suoi 28 Stati, dagli europarlamentari e anche dall’Alto Commissariato dell’Onu. Il crimine non è episodico ma ormai sistemico, e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle carestie prolungate. Il Mar Mediterraneo non smette di riempirsi di morti dal 28 marzo 1997, quando, nel naufragio della Katër i Radës, 81 profughi albanesi perirono nel canale di Otranto. Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della guerra in Vietnam. È indecenza parlare di “cimitero Mediterraneo”. Parliamo di fossa comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei fuggitivi che abbiamo lasciato annegare.
Le azioni di urgenza che vanno intraprese devono essere, tutte, all’altezza di questo crimine, e della memoria del mancato soccorso nel secolo scorso. Non sono all’altezza le missioni diplomatiche o militari in Libia, dove per colpa dell’Unione, dei suoi governi, degli Stati Uniti, non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria alla Palestina, dall'Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile da anni.
Le azioni necessarie nell’immediato, eccole:
Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie legali di fuga presidiate dall’Unione europea e dall’Onu.
Urge finanziare gli interventi di ricerca e soccorso lungo le coste europee ma anche in mare aperto come faceva l’operazione Mare nostrum, e dovrebbe fare l’operazione Triton; tutto ciò nella piena consapevolezza che la stabilizzazione del caos della Libia non è ottenibile nel breve-medio periodo.
Urge la collaborazione leale (come stabilito dall’articolo 4 del Trattato dell’Unone) smentendo cio che ha dichiarato Natasha Bertaud, portavoce della Commissione: «Attualmente la Commissione non ha né le risorse né il sostegno politicoper costituire un sistema di protezione dei confini capace di svolgere operazioni di ricerca e soccorso» . Questa frase ha lo sconvolgente significato di “mancanza di soccorso”, considerata un crimine nel nostro sistema giudiziario.
La stessa ONU dovrebbe muoversi con urgenza, e il Consiglio di sicurezza dovrebbe affrontare questa tragedia con una risoluzione. Se i delitti compiuti sul mare appaiono come il prolungamento della guerra o della carestia generate dal collasso degli stati di origine o di transitonon possiamo escludere l’intervento peacekeeping dell’ONU. L’aiuto agli sfollati e agli affamati è procedura consolidata dell’ONU: oggi deve essere applicata al Mediterraneo
Gli accordi di Dublino devono essere ripensati al più presto. Con una decisione del 21 dicembre 2011 la Corte di giustizia europea ha espresso una valutazione positiva al considerare il rischio di trattamento inumano dei profughi come una condizione essenziale peril trasferimento. Ciò costituisce un effettivo obbligo di derogare dall’elenco di criteri stabiliti dal regolamento di Dublino
Con la stessa tempestività occorre tenere in considerazione che i paesi più esposti oggi al flusso dei profughi sono quelli del Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): si tratta degli stessi paesi che sono stati colpiti, dopo la crisi del 2007-2008, da una drastica riduzione della spesa sociale. Queste voci di spesa comprendono quelle destinate alla ricerca e soccorso per i profughi. L’onere che pesa ingiustamente su questi paesi deve essere immediatamente alleviato.
Infine, c’è il problema dei tempi. Dal massacro di Lampedusa del 2013 i governi dell’Europa hanno sostenuto la cooperazione con i paesi di origine o transito dei profughi per “esternalizzare" le politiche di ricerca e soccorso e quelle di asilo. Il Commissario Dimitris Avramopoulos ha perfino auspicato la “collaborazione con le dittature” considerando respingimenti collettivi, benchè vietati dalla Convenzione per i diritti dei profughi (articolo 33) e dagli articoli 18 e 19 dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Non c’è tempo per costruire relazioni diplomatiche (nell’ambito dei cosiddetti processi Rabat e Khartoum) perché i profughi sono in mare, e devono essere salvati: ovviamente dalla morte, ma anche dalle mafie che si arricchiscono dalla loro carne, aiutate dal vuoto di legalità che l’Unione europea deve ora riempire.
Gli stati europei e l’ONU sono colpevoli di delitti e continuano a vivere in una condizione delirante. Carlotta Sami, portavoce dell’ UNCHR, è stata molto chiara: «Lasciar morire la gente nel mare non scoraggerà i profughi nella loro ricerca di salvezza» dalla guerra, dalla carestia, dall’odio recentemente scatenato contro i cristiani o altre minorante e, in futuro, anche dalle catastrofi legate al clima. La velocità dei colloqui e delle trattative diplomatiche non corrisponde più all’urgenza dei fatti. Il tempo per organizzare una massiccia operazione di soccorso per l’umanità che fugge verso l’Europa è adesso, mentre parliamo.