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Vitalba Azzolini
Perché l’Italia non è un paese per whistleblower
25 Marzo 2015
Articoli del 2015
«Se il

whistleblowing manca di una traduzione idonea forse dipende anche dal fatto che, pure giuridicamente, in Italia è ancora un significante privo di significato: sostanziarlo gioverebbe alla legalità, oltre che al lessico». Lavoce.info, 24 marzo 2015 (m.p.r.)

Non esiste una parola per tradurre “whistleblowing”, ma sarebbe uno strumento utile contro la corruzione. La legge in discussione potrebbe introdurre garanzia dell’anonimato, incentivi adeguati e una tutela più estesa per chi denuncia le illegalità.

Le parole per dirlo

La corruzione si insinua in modo capillare in ambiti politici, economici e istituzionali, grava sulle risorse nazionali e riduce l’attrattività dell’Italia. Basta guardare il posto che il nostro paese continua a occupare anno dopo anno nella classifica della corruzione “percepita”, per comprendere la necessità di strumenti che aiutino a contrastare il fenomeno. Più che nuove punizioni sancite da norme che si affastellano su quelle precedenti, servirebbero però strumenti che ne favoriscano l’emersione e abbiano al contempo una funzione deterrente, come il whistleblowing. Il termine non trova neanche una traduzione adeguata in italiano, perché manca il riconoscimento socio-culturale del concetto corrispondente, che in ambito internazionale viene invece valorizzato da tempo.

La convenzione civile sulla corruzione del 1999 (ratificata con legge n. 112/2012) e la convenzione Onu del 2003, ratificata con legge n. 116/2009, dispongono che gli stati aderenti si impegnino ad adottare misure di protezione a favore di chi, in buona fede e sulla base di ragionevoli sospetti, denunci casi di illegalità. Raccomandazioni di contenuto analogo provengono dal Working group on bribery, incaricato del monitoraggio sull’attuazione della convenzione Ocse sulla lotta alla corruzione degli impiegati pubblici nelle operazioni economiche internazionali (1997, ratificata con legge n. 300/2000); dal Groupe d’Etats contre la corruption, istituito dal Consiglio d’Europa per controllare l’adeguamento degli stati alle misure anti-corruzione previste in sede UE; nonché dal G-20 Anti-corruption working group, costituito in ambito Ocse, che ha predisposto i Guiding principles for whistleblower protection legislation.
Nell’ordinamento giuridico nazionale, il whistleblowing è stato introdotto solo di recente, con la legge n. 190/2012: l’articolo 54-bis legge n. 165/2001 ora tutela da licenziamento e ritorsioni il dipendente pubblico che segnali illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro. La norma recepisce le prescrizioni delle convenzioni solo parzialmente e, per molti versi, in maniera inefficace, come evidenziato dagli stessi organismi internazionali: considera esclusivamente l’ambito pubblico, ignorando quello privato; salvaguarda il denunciante in modo insufficiente; ha carattere “piuttosto generico e non esaustivo”, specie per ciò che riguarda canali di segnalazione e dispositivi di protezione.

Come rendere conveniente l'onestà

I limiti della regolamentazione nazionale sviliscono il potenziale intrinseco dello strumento e si riflettono sul suo concreto utilizzo, come dimostra il dato rilevato dal Global corruption barometer 2013 (Transparency International): il 44 per cento degli italiani non sarebbe disposto a fare “soffiate”, soprattutto per l’assenza di tutele giuridiche adeguate. La disciplina infatti garantisce la privacy del segnalante solo se la conoscenza della sua identità non “sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato”. Questa soluzione, se pure volta a contemperare diritto di accesso ed esigenza di riserbo non incoraggia le segnalazioni; e sembra non legittimare quelle provenienti da fonti anonime. La “scarsa propensione alla denuncia” e di conseguenza la “rilevante difficoltà di emersione” di episodi di corruzione può imputarsi anche a un altro limite della normativa: la mancanza di fattori che incentivino adeguatamente i whistleblower. La tutela da licenziamento e da altre forme di discriminazione non basta a promuovere le segnalazioni: se si considerano i tempi della giustizia italiana, non vi è certezza che il denunciante non debba comunque sopportare costi “professionali”.

Se l’onestà non paga, serve “aumentarne il rendimento per legge”, con una ricompensa tale da renderla conveniente. I risultati ottenuti negli Stati Uniti lo dimostrano: le somme rivenienti da “soffiate” consentono di dare a chi segnala premi che oscillano tra il 15 e il 30 per cento di quanto recuperato o dell’ammontare dei danni evitati. Il riconoscimento di una ricompensa, peraltro, conviene anche a chi la corrisponde perché il rischio che l’illecito venga “spifferato” può operare come deterrente. In Italia, misure premiali non sono mai state introdotte, ancorché siano state auspicate dalla commissione di studio al progetto normativo della legge n. 190/2012 e proposte in un successivo disegno di legge, poi decaduto.
Quanto alla inapplicabilità della disciplina al settore privato, la corruzione riveste comunque pubblica rilevanza: incide non solo sul patrimonio della singola azienda, ma anche sul sistema economico nel suo complesso, distorcendo i meccanismi di funzionamento del mercato. Il legislatore nazionale ha scelto di non interferire nelle relazioni fra dipendente e organizzazione di appartenenza, invece di privilegiare l’interesse collettivo all’emersione dell’illegalità in ogni settore, senza considerare che lo strumento avrebbe altresì garantito maggiore efficacia ai mezzi di prevenzione, monitoraggio e controllo dei rischi giuridici d’impresa di cui al decreto legislativo n. 231/2001.
La mancata applicazione all’ambito privato troverà a breve un parziale correttivo: il whistleblowing verrà disciplinato relativamente alle violazioni in materia di enti creditizi e intermediari finanziari, in forza dell’imminente recepimento della direttiva cosiddetta Crd IV (tramite testo unico bancario e testo unico della finanza). Banca d’Italia e Consob, secondo le rispettive competenze, riceveranno le segnalazioni, che saranno incentivate mediante eventuali diminuzioni delle sanzioni da irrogare ai whistleblower corresponsabili della violazione dichiarata (premialità da tempo prevista nei cosiddetti Leniency programs statunitensi). Inoltre, sempre in forza di regole di derivazione comunitaria (pacchetti Mad e Mifid II), nel 2016 lo strumento dovrà essere esteso alla denuncia di violazioni in materia di abusi di mercato e servizi di investimento.
I limiti della normativa italiana sembrano sottendere il pregiudizio culturale negativo, secondo cui il whistleblowing sarebbe equiparabile a un atto di delazione, non sempre mosso da nobili intenti: ciò ha forse indotto il legislatore a contenerne l’ambito di applicazione e a non stimolarne l’utilizzo. Tuttavia, considerato che è finalizzato a portare l’illegalità in superficie, la moralità dei motivi delle “soffiate” appare irrilevante, è necessario solo che riguardino fatti circostanziati e di pubblico interesse. Allo stesso tempo, la regolamentazione prevista non ha compiti educativi, tesi a indurre nei singoli un senso civico altrimenti carente, ma serve a fare in modo che il concorso individuale coadiuvi il contrasto del malaffare.
Il disegno di legge in materia di corruzione in discussione in parlamento potrebbe costituire l’occasione per potenziare la disciplina dell’istituto, superando gli attuali limiti con garanzia dell’anonimato, incentivi adeguati e una tutela più estesa. Se il whistleblowing manca di una traduzione idonea forse dipende anche dal fatto che, pure giuridicamente, in Italia è ancora un significante privo di significato: sostanziarlo gioverebbe alla legalità, oltre che al lessico nazionale.
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