In prima approssimazione si può concordare con De Lucia (Pianificazione paesaggistica vs Pianificazione urbanistica?eddyburg, 29 giugno 2008), perché nella pregevole relazione di Settis al convegno della rete dei comitati del 28 giugno scorso a Firenze, l’affermazione che nella legislazione pregressa sul paesaggio «la tutela si è fermata alla porta delle città» può essere interpretata come un’inesattezza. Ma poi occorre discostarsi dagli argomenti che De Lucia adduce. È indubbio che l’urbanistica abbia da sempre teso a comprendere la tutela del paesaggio. L’urbanistica è essenzialmente volontà di governo dell’interezza del territorio. Ma è difficile pensare che Settis non abbia, come i più, questa consapevolezza. Ciò che, invece, sembra poco presente alla maggioranza dei commentatori è che la legge 1497 del 1939 non intendeva affatto limitare la tutela alle porte delle città. Non solo ciò è documentato dagli innumerevoli scritti che la precedono e ne propugnano l’emanazione; ma anche dalla semplice constatazione che le migliaia di luoghi vincolati in base a quella legge (e non per deliberazione di piani territoriali o urbanistici) comprendono interi centri urbani e cospicue parti di grandi città.
A cosa è dovuto dunque questo costante riaffiorare di una vena polemica, «pianificazione paesaggistica vs pianificazione urbanistica»? Solo a un perdurante quiproquo? No, le radici del contrasto sono profonde e di ben altra natura; ma per lo più non si spinge lo sguardo verso questo fondo, evitando così di porsi faccia a faccia col dilemma in cui resta avvolta la volontà di tutelare il paesaggio in forza di legge, in quanto bene culturale di interesse pubblico. Questa volontà sorge insieme all’affermarsi degli ordini giuridici volti a garantire il cosiddetto “libero mercato”, ossia quell’agire individuale e sociale che, in quanto determinato dallo scopo primario del profitto, si chiama “capitalismo”. La tutela si costituisce essenzialmente sulla base della distinzione tra valore “culturale” e valore “venale” dei beni. Non si tiene mai abbastanza presente che negli ordini giuridici del nostro tempo, quelli in vario modo liberaldemocratici, entrambi i valori sono di interesse pubblico, ossia sono riconosciuti come diritti. Quando un determinato bene è posto come mezzo di un’azione di mercato, pubblico o privato che sia l’attore, tale bene si identifica al suo valore venale. Cosa accade quando il medesimo bene è posto sotto tutela in quanto ne è riconosciuto il suo valore culturale?
Il legislatore e la giurisprudenza hanno mantenuto saldo il principio che il valore culturale è preminente su quello venale. Il fondamento giuridico della tutela pubblica (dalla quale non discende immediatamente alcuna efficienza operativa), è tutta racchiusa in questo principio, che è però insieme il più esplicito riconoscimento della contrapposizione irriducibile dei due valori. In che senso irriducibile? La preminenza di un valore non annienta gli altri possibili. Ma va tenuto ben presente che ogni agire è determinato dallo scopo primario. È lo scopo primario che dà il senso all’agire, che ne determina la direzione verso cui muovere, ogni altro fine coinvolto nell’azione è ridotto a puro e semplice mezzo per raggiungere l’intento prioritario. Sicché ogni agire che ponga come primaria la determinazione del valore venale di un bene, non esclude necessariamente la determinazione del valore culturale del medesimo bene, ma quest’ultima sarà posta necessariamente quale proprio mezzo e così viceversa quando l’azione ponga come primaria la determinazione del valore culturale.
Ora, c’è una pervicace resistenza nella cultura urbanistica a non riconoscere esplicitamente e nella sua essenza che quell’agire per mezzo di atti normativi delle amministrazioni locali che chiamiamo pianificazione urbanistica e territoriale è istituzionalmente e di diritto preposta alla determinazione del valore venale dei beni e come tale è operata, con un’efficacia e un’efficienza che non hanno alcun riscontro in nessuna azione di tutela. Allo stato del diritto è questa la ragion d’essere della pianificazione pubblica, che la rende assolutamente incompatibile con lo scopo costituito dalla determinazione del valore culturale dei beni a fini di tutela.
Un padrone può avere due servi, anzi spesso ha bisogno di molti servi, ossia gli occorrono molte mediazioni per raggiungere gli scopi. Ma un servo (lo strumento urbanistico) non può avere due padroni (il valore culturale e il valore venale). Quando si tende, come si sta tendendo, verso una tale situazione, allora è il servo a farla da padrone, ossia il mezzo (la strumentazione urbanistica) si rovescia in scopo primario di tutte le azioni che se la contendono. L’agire determinato dalla tutela e l’agire determinato dagli interessi economici (pubblici o privati che siano) sono costretti ad assumere come scopo primario il possesso e il potenziamento del mezzo, ciascuno nel tentativo di prevalere sull’avversario. Sicché gli atti normativi, di legge e amministrativi, vanno crescendo di numero e s’infittisce il ritmo e la variazione della loro produzione. Ma allo stato dei rapporti di forza, è l’agire economico che ha la capacità di sviluppare una potenza di gran lunga superiore all’agire culturale nel potenziamento e nell’uso degli strumenti di piano a proprio favore. È altamente probabile (ma qui non c’è spazio per argomentare la tesi) che l’insufficiente consapevolezza di gran parte della cultura urbanistica contribuisca a rafforzare tale supremazia, anche quando o soprattutto quando crede o vuol far credere di esser tutta intenta a salvare e a donar paesaggio (e non solo) all’umanità intera.
Il punto su cui non concordo con Ventura è racchiuso in questa frase: “quell’agire [...] che chiamiamo pianificazione urbanistica e territoriale è istituzionalmente e di diritto preposta alla determinazione del valore venale dei beni”. A differenza di Ventura, io ritengo che la pianificazione urbanistica sia uno strumento, la cui finalizzazione è determinata dalla politica. Tra i suoi effetti possono esserci sia l’attribuzione di “valori venali” che la tutela di “valori culturali”, È solo se scendiamo dal livello dell’astrazione a quello della concretezza che possiamo cogliere la validità (parziale) della posizione di Ventura: che sta nel fatto che oggi, nella condizione della nostra attuale società, la pianificazione è adoperata per la finalità “venale”. Ma le eccezioni ci sono, e dimostrano che – come nel caso dei piani ricordati da De Lucia – la pianificazione può essere adoperata anche per la finalità della tutela dei “valori culturali”.
Alcuni di noi, da diverse sponde, si sforzarono di proporre un metodo di pianificazione che anteponesse, nella pianificazione territoriale e urbanistica ordinaria, le scelte della tutela su quelle della trasformazione, cioè dell’attribuzione di “valore venale” (rinvio in proposito al mio scritto per i Quaderni dell’Archivio Osvaldo Piacentini). Tracce sbiadite di questo tentativo sono nelle parole di alcune leggi regionali, come la toscana; ma sono, più che parole, chiacchiere.