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Vittorio Emiliani
Per uscire dalla crisi investire in cultura
16 Novembre 2011
Beni culturali
Il difficile compito del nuovo ministro dei bb.cc.: invertire la rotta e bonificare i pozzi avvelenati lasciati dalla precedente gestione. L’Unità, 16 novembre 2011 (m.p.g.)

Di fronte a Palazzo Madama di colpo mi si para davanti Francesco Sisinni, a lungo direttore generale dei Beni Culturali, negli anni 80-90, da noi spesso criticato. “Mi rimpiangete, eh?…”, ghigna beffardo. Esito un attimo e poi, teatralmente, in un soffio: “Sì, Francesco, sì!” In realtà, non rimpiangiamo lui quanto un Ministero dei Beni Culturali e Ambientali che, nonostante difetti di base, assicurava, col sacrificio personale di “fedeli (e competenti) servitori dello Stato”, una rete di tutela invidiata all’estero. Non sarebbe stato possibile all’epoca promuovere d’autorità ai più alti incarichi persone pluribocciate ai concorsi. Né degradarsi a decine di avvilenti gestioni “ad interim” di Soprintendenze, avendo nel contempo una direzione centrale macrocefala, né disattivare i concorsi per anni, né lasciar tagliare il personale con l’accetta: 19.000 unità (presto 16.000) per tutelare un patrimonio tanto sontuoso quanto aggredito.

“Ogni funzionario della Soprintendenza architettonica di Milano, la più esposta ai pericoli, dovrebbe esaminare al giorno 79,24 progetti di ogni tipo”, ha ammesso, come se lui piovesse da Marte, l’8 novembre al bel convegno di Assotecnici il segretario generale del MiBAC, arch. Roberto Cecchi che negli anni decorsi non ha mai aggrottato un sopracciglio. “Ma non le fa male l’osso del collo a forza di dire sempre di sì?”, domandò Antonio Cederna ad un alto burocrate negli anni ’50. La stella di Berlusconi si offusca e subito c’è chi si “riposiziona”. Dei 19.000 ministeriali, appena il 2 % sono architetti, ingegneri, tecnici (circa 350), altrettanti gli archeologi e gli storici dell’arte. Una miseria. Tutto ciò, ha concluso il riposizionato Cecchi, non consente di attuare l’articolo 9 della Costituzione. Una tranquilla confessione di terribile impotenza.

E’ comprensibile che quanti sono stati nel cuore del potere ai Beni e alle Attività Culturali (nel frattempo perenti), attorno a Bondi, come i Cecchi, i Nastasi, i Carandini, confermati da Galan, difendano le postazioni, patiscano candidati “pericolosi” come Settis (che contro Bondi si dimise), e magari indossino nuove casacche affinché nulla cambi. Dove invece molto deve cambiare, altrimenti si va a fondo.

Il buon documento di base presentato da Assotecnici per il suo convegno è un valido pro-memoria per il prossimo (speriamo) titolare del Collegio Romano. Nell’ultimo biennio di crisi nera in Germania, per formazione e ricerca, la quota di PIL è salita dal 2,40 al 2,78 %. Sullo stesso livello gli Usa, poco sotto la Francia. Noi? In coda. Sono, secondo Matteo Orfini, responsabile del Pd per la cultura, tipici “settori anticiclici” nei quali i Paesi avanzati investono proprio per uscire dalla crisi. Facciamolo anche noi, riqualifichiamo il sistema di tutela, eliminiamo “tutti i commissariamenti”. Costosi e spesso disastrosi (vedi Pompei).

Inversione di rotta possibile però se le scelte per la cultura (così Giulia Rodano, responsabile Cultura dell’Idv) non saranno più subalterne ad una valutazione di redditività. Dovremo abituarci a “fare bene con meno”, ha ammonito l’ex ministro Giovanna Melandri, malgrado quello in cultura sia un investimento in civiltà e con una redditività differita certa. Occorre ridiscutere il modello di Ministero (Marisa Dalai presidente della Bianchi Bandinelli): decentrato com’era o duramente accentrato come l’ha voluto Urbani? E poi basta coi compartimenti stagni, con la sconnessione fra Ambiente-Paesaggio-Patrimonio storico/artistico-Turismo.

Connessione reclamata dai continui, angosciosi drammi ambientali. Il nostro è un paesaggio modificato dall’uomo al 90 %, un paesaggio “rifatto a mano”, con un gigantesco sistema di terrazzamenti dalla Valtellina a Pantelleria in molti punti dissestato. L’esodo di 7 milioni di ex contadini delle terre alte ha accelerato lo sfascio di un sistema idraulico-forestale antico, alvei non ripuliti, sottobosco non curato, canali di scolo abbandonati, torrenti (per disperazione e insipienza) cementificati. Così la montagna “si vendica” a valle. In una Italia per due terzi montagna e collina. Nel contempo sono state disattivate o devitalizzate: la legge Galasso sui piani paesaggistici dell’85, la legge n. 183 dell’89 sui bacini fluviali, la legge Bucalossi sui suoli del 1977 che riservava gli oneri di urbanizzazione ai soli investimenti, lo stesso Codice per il paesaggio. “Fare bene con meno”? Si può, ma garantendo la sopravvivenza all’Amministrazione dei Beni Culturali (e Ambientali) e attuando, aggiornate, le leggi solide e civili che ci siamo dati. Su tutto ciò dobbiamo ragionare presto – per “ricostruire l’Italia” della cultura – in forma seminariale (non seminarile). Con cultura di governo, con laico coraggio. Nell’analisi e nella proposta.

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