Il Manifesto, 31 ottobre 2014 (m.p.r.)
Dal discorso del papa nel suo incontro del 28 ottobre con i movimenti popolari possiamo ricavare un programma politico e sociale di respiro planetario dal quale non potremo più prescindere, perché raccoglie in larga parte le istanze che orientano il nostro operato, proiettandole su uno scenario che ingloba l’intero pianeta. Certo, le parole del papa sono un distillato di saperi, esperienze e riflessioni sedimentato in anni di lotte sociali, soprattutto dell’America Latina (ma non mancano riferimenti a contesti a noi più familiari come quello europeo). Ma se a ispirarlo fosse stato invece dio, e se dio la pensasse così, ben venga anche lui tra di noi: a verificare la traduzione delle sue parole in iniziative e in mobilitazioni sarà la verifica dei fatti. La piattaforma delineata inell’incontro con il papa ha tre nomi:lavoro, terra e casa: «diritti sacri», li definisce il pontefice.
Sul lavoro il papa dice: «Non esiste peggiore povertà materiale di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro». Occorre rivendicare e ottenere «una remunerazione degna, la sicurezza sociale, una copertura pensionistica, la possibilità di avere un sindacato». «La disoccupazione giovanile, l’informalità e la mancanza di diritti» sono il frutto «di un sistema economico che mette i benefici (il profitto) al di sopra dell’uomo». E qui il papa accenna un tema a lungo trattato da Zigmunt Bauman (in Vite di scarto); d’altronde tra i suoi interlocutori ci sono i cartoneros, che vivono recuperando rifiuti. Quel sistema iniquo è il prodotto «di una cultura dello scarto che considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare».
Alle forme tradizionali di sfruttamento e di oppressione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di rendere gli esseri umani superflui: «quelli che non si possono integrare, gli esclusi, sono scarti, eccedenze… Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non la persona umana». Così «si scartano i bambini e si scartano gli anziani perché non servono, non producono». E «lo scarto dei giovani» ha portato ad «annullare un’intera generazione… per poter mantenere e riequilibrare un sistema nel quale al centro c’è il dio denaro». E in chi, come i cartoneros, vive proprio recuperando scarti, il papa vede un’allusione a un modo completamente alternativo di concepire il lavoro: «Nonostante questa cultura dello scarto, delle eccedenze, molti di voi, lavoratori esclusi, eccedenze per questo sistema, avete inventato il vostro lavoro con tutto ciò che sembrava non poter essere più utilizzato, ma voi con la vostra abilità artigianale, con la vostra ricerca, con la vostra solidarietà, con il vostro lavoro comunitario, con la vostra economia popolare, ci siete riusciti… Questo, oltre che lavoro, è poesia!»
Parlando della terra — intesa nel duplice significato di ambiente (il pianeta Terra) e di suolo, oggetto del lavoro dei contadini — largamente presenti all’incontro, con la loro associazione planetaria Via campesina — il papa si appella innanzitutto al senso profondo del lavoro contadino, che non è quello di sfruttare e devastare la terra con l’agrobusiness, ma quello di custodirla: coltivandola e facendolo «in comunità». Per questo occorre combattere «lo sradicamento di tanti fratelli contadini» provocato dall’accaparramento delle terre, dalla deforestazione, dall’appropriazione dell’acqua, da pesticidi inadeguati». Quella separazione «non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale» e rischia di portare all’estinzione le comunità rurali. Il nemico di questa cultura contadina, come dei diritti del lavoro, è la speculazione finanziaria, che «condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi» provocando quell’altra «dimensione del processo globale» che è la fame, proprio mentre si scartano e si buttano via tonnellate di alimenti.
Sulla casa (che vuol dire abitare in un contesto sociale di prossimità), il papa vuole «che tutte le famiglie abbiano una casa e che tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata: fognature, luce, gas, asfalto, scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono». E aggiunge, «un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere, ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato». È proprio grazie a questi rapporti, dove ancora esistono, che «nei quartieri popolari sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti», perché «lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito, ma un’estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato».
«Quanto sono belle – aggiunge — le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo». Siamo talmente assuefatti a vedere situazioni di deprivazione da chiamare chi è senza casa, compresi i bambini, «persone senza fissa dimora»: un eufemismo che è il colmo dell’ipocrisia. Ma «dietro ogni eufemismo – ricorda — c’è un delitto». È il delitto degli sgomberi forzati, che interessano milioni di abitanti vittime del grabbing della terra, ma anche degli slums urbani e di tante situazioni di casa nostra.
In tutti e tre questi ambiti – lavoro, terra e casa — l’ostacolo che si frappone alla realizzazione degli obiettivi per cui si battono i poveri della Terra è «l’impero del denaro»; il capitalismo finanziario, diremmo noi. Ma «i poveri non solo subiscono l’ingiustizia, ma lottano anche contro di essa». E «non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi… non stanno ad aspettare a braccia conserte piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai» o che vanno «nella direzione di anestetizzare o di addomesticare». «Vogliono essere protagonisti, si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà che esiste fra quanti soffrono… e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato». Quella solidarietà «è molto di più di alcuni atti di generosità». È partecipazione: «pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni».
Quell’uragano è la conversione ecologica. Perché accanto al dio denaro, causa prima della miseria in cui si dibattono i poveri, gli altri suoi bersagli sono la guerra e la devastazione dell’ambiente: «Non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distruggiamo il pianeta» (e qui il papa annuncia una prossima enciclica sull’ecologia). «Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro vengono sanati». E «un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura…per sostenere il ritmo frenetico del consumo». Ma «il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro piacere; e ancor meno è una proprietà solo di alcuni, di pochi. È un dono di cui dobbiamo prenderci cura» utilizzandolo a beneficio di tutti.
«Dobbiamo cambiare – dice il papa — dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno». Ed ecco allora un elenco delle virtù che cambiano il mondo: «Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi intrappolati»; e praticando «una cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza». Si tratta di una lotta al tempo stesso globale e locale: nasce dai rapporti di prossimità, ma abbraccia tutto il pianeta: «So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: ma vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia, che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto!».
Seguono alcune raccomandazioni relative all’organizzazione e alla riconfigurazione della democrazia: «Non è mai un bene racchiudere il movimento in strutture rigide… e lo è ancor meno cercare di assorbirlo, di dirigerlo o di dominarlo; i movimenti liberi hanno una propria dinamica, dobbiamo cercare di camminare insieme». E «i movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature… esige che noi creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi… con animo costruttivo, senza risentimento, con amore».
Mi sono limitato a pochi commenti. E ho ben poco da aggiungere.