1 Premessa
E così, dopo smentite, annunci di emendamenti, polemiche interne e cifre di mirabolanti entità, si è arrivati al triste e ciclico provvedimento volgarmente detto “condono edilizio”.
Prima di sintetizzare i contenuti del provvedimento corre però l’obbligo di articolare qualche semplice riflessione.
Come premessa va detto che il condono edilizio, tra tutti, è il più violento: nei confronti del presente e del futuro. Esso ha, dal punto di vista “morale”, la medesima portata di tutti gli altri provvedimenti in sanatoria, ovvero di atti che premiano i furbi e i disonesti, in favore di chi cerca – nonostante tutto – di svolgere civilmente il proprio “mestiere” di cittadino. Ma, oltre a tale denominatore comune, il condono edilizio lascia un segno indelebile sul territorio, sul suo avvenire e sull’equilibrio dello sviluppo urbano. Tra vent’anni, quando magari anche in Italia ci si vergognerà di frodare le leggi, il condono fiscale sarà ricordato nei testi come una cattiva prassi di quadratura dei conti; quello edilizio, purtroppo, sarà ben presente nella vita di ciascuno, poiché gli scempi non riguardano i bilanci, ma hanno a che fare con i luoghi dove tutti i giorni viviamo. L’aggravante etica è poi quella connessa con il dato – ormai riconosciuto da tutti (o quasi tutti) – che il territorio è una risorsa scarsa e non riproducibile: valorizzarlo è un obbligo, svenderlo un crimine.
Vale poi la pena soffermarsi sul dato numerico, ossia sul fatto che il condono edilizio anche in termini meramente economico-fiscali, non è un vantaggio (e se lo è, ha carattere di brevissima durata) ma un costo per il futuro. È stato annunciato dal governo che l’introito che si vorrebbe garantire all’erario con questa misura dovrebbe aggirarsi attorno ai 2,5/3 miliardi di euro. Ma, un urbanista e amministratore come Vezio De Lucia ha stimato che:
“il condono edilizio è comunque un disastro per le pubbliche finanze. E' stato calcolato che, fatto 100 l'ammontare delle oblazioni, è pari almeno a 300 la spesa che i poteri locali devono sostenere per urbanizzare adeguatamente i territori infestati in ogni direzione dagli insediamenti abusivi”.
La dimostrazione di tale dato è resa palese dalle stime fatte dalle associazioni ambientaliste, su dati ufficiali, relativamente ai costi dell’analogo provvedimento del 1994 per il Comune di Roma, dove “a fronte di introiti dei condoni 1985 e 1994, pari a 477 milioni di euro, c’è stata una spesa del Comune in opere di urbanizzazione pari a 2.992 milioni di euro, cioè sei volte tanto.”. Dunque, anche razionalmente e non solo eticamente, si tratta di una misura incomprensibile.
Per concludere, ai soli fini della fredda cronaca storiografica, vale la pena ricordare la successione ciclica dei condoni negli ultimi 18 anni, con la relativa paternità politica:
1985, Governo Craxi, Ministro Nicolazzi;
1994, Governo Berlusconi, Ministro Radice;
2003, Governo Berlusconi, Ministri Tremonti e Lunardi.
La prima cosa che colpisce il lettore è il titolo. Infatti, con grande astuzia, l’art. 32 della finanziaria 2003, è intitolato:
“Misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attività di repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali.”
Già da qui si comprende la volontà mistificatoria degli estensori del provvedimento e il timore di chiamare le cose con il loro nome. Sembra, infatti, che a differenza di qualche anno fa, la percezione dell’opinione pubblica rispetto a questo tipo di condono sia mutata, grazie anche alla mutata percezione del valore fondamentale della sostenibilità ambientale. Il legislatore pare abbia timore a chiamare, come nel 94, il condono con il nome di “misure di razionalizzazione della finanza pubblica”.
Tale atteggiamento - che non è avventato definire ipocrita – è sotteso a tutta la prima parte del provvedimento che, per chiarezza, possiamo dividere in tre corpi principali.
Una prima parte, dall’art 1 sino all’art. 13 è la parte delle “misure di salvaguardia” o, come mi permetto di definirla, del “bambino monello” (spiegherò poi la metafora).
Una parte centrale, dall’art. 14 all’art. 24, relativa ai “saldi territoriali”, ossia concernente la vera e propria svendita di lembi di territorio oggi in capo al Demanio dello Stato.
L’ultima parte, dall’art. 25 sino alla fine, relativa al condono in senso proprio del termine.
Nella prima parte dell’articolato si coglie il rimorso (o l’ipocrisia) del legislatore che, conscio di perpetrare un grave danno al territorio, si sente obbligato ad introdurre norme e danari – probabilmente fittizi – per sentirsi meno corrivo con un vero e proprio scempio. L’immagine più prossima che mi è sovvenuta alla mente è quella del discolo che, dopo aver rotto un vaso prezioso in una scorribanda casalinga, sente il dovere di lucidare tutti gli altri soprammobili e di rassettare la casa per coprire il danno fatto. Si tratta, in entrambe i casi, di un atteggiamento pavido e infantile; tollerabile forse da un bambino, sconcertante se tenuto da un Governo.
Perché questo paragone? Perché scorrendo i primi tredici articoli emerge un profluvio di ottime intenzioni e di parche elargizioni di danaro pubblico: 100 milioni di euro per la riqualificazione di ambiti territoriali, altrettanti per la realizzazione di un programma di interventi di messa in sicurezza del territorio nazionale dal dissesto idrogeologico, 50 milioni di euro per attuare il programma di ripristino e riqualificazione di aree soggette a vincolo paesistico/ambientale, 50 milioni di euro come facoltà alla Cassa Depositi e Prestiti di istituire un fondo di rotazione per la demolizione degli abusi.
In sostanza si stanziano (sempre in maniera fittizia, poiché non ci sono i riferimenti di finanziamento) soldi per mitigare gli effetti dirompenti della medesima legge: si ferisce e si ricuce la ferita per un quarto.
Va poi detto che non c’è un articolo, nella norma, che attui le annunciate misure per velocizzare la demolizione degli abusi. Infatti, le tranquillizzanti dichiarazioni di alcuni ministri avevano teso a rassicurare che il condono era sì brutto ma, d’altro canto, inevitabile: mancano i soldi; assieme a questo, avevano detto che, contestualmente all’amaro calice della sanatoria, si sarebbero semplificate le norme per la certificazione e distruzione degli abusi.
Qualcuno aveva visto, almeno in ciò, qualche flebile speranza “compensativa”: in effetti, oggi, per arrivare a demolire un abuso sono necessari molteplici e onerosi passaggi giuridici, burocratici e amministrativi. Purtroppo, in questo caso, così è e così sarà: nessuna delle procedure attuali cambia.
La parte compresa tra gli articoli 14 e 24 è, forse, la più inquietante. Infatti, tali parti sanciscono la possibilità di godere del condono anche per gli immobili costruiti abusivamente su aree demaniali, ossia pubbliche, a patto che vi sia “la disponibilità da parte dello Stato proprietario, per il tramite dell’Agenzia del demanio, rispettivamente, a cedere a titolo oneroso la proprietà dell’area appartenente al patrimonio disponibile dello Stato su cui insiste l’opera ovvero a garantire onerosamente al mantenimento dell’opera sul suolo appartenente al demanio e al patrimonio indisponibile dello Stato” (art. 14). In sostanza, sulle aree pubbliche, di proprietà dello Stato, patrimonio della collettività, si potrà - secondo i pareri dell’Agenzia del Demanio - o sanare l’abuso lasciando il bene condonato in “diritto di superficie” ventennale o, cosa ancor più grave, ad acquistare – tramite licitazione privata – un bene pubblico (che dovrebbe essere alienato tramite bando).
Dunque, non ci si limita a sanare un illecito ma – contemporaneamente - si vende ex post una parte di territorio, solo perché qualche furbo (o criminale, perché di questo si tratta) con la prepotenza ne ha occupato il sedime. Si tratta di un atteggiamento arrendevole, cinico e limitato che rende improbo il “mestiere” di essere italiani.
Appare ancora propagandistico quanto previsto nell’art. 24, in cui si stanziano altri 20 milioni di euro nel 2004, 40 milioni per il 2005 e altrettanti per il 2006 “ai fini del miglioramento, della tutela e della valorizzazione delle aree demaniali”. Viene da dire a chi ha scritto la norma: ma ci si rende conto che la migliore e più economica tutela e valorizzazione delle aree demaniali, sarebbe stata la ferma punizione e demolizione degli abusi, e che invece si alimenta l’esatto opposto per poi stanziare altri soldi per renderlo (forse) più digeribile?
L‘ultima parte, come detto, riguarda il condono vero e proprio.
L’articolo 25 stabilisce che la sanatoria si applica alle “opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento di 750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria”.
In sintesi, come si evince anche da una recente interpretazione riportata dal “Sole 24 ore”, sono sanabili le opere abusive “ultimate”, cioè complete nel loro sviluppo tridimensionale, anche se non corredate di impianti e immediatamente utilizzabili. Restano fuori dalla sanatoria i pilastri che al 31 marzo 2003 erano privi di solaio, oltre ai volumi non delimitati.
L’articolato prevede poi limitazione al diritto di ricorrere al condono a chi sia stato condannato per i crimini di cui agli art. 416 bis (associazione mafiosa), 648 bis e ter (riciclaggio e finanziamento illecito).
Le Regioni, che dovrebbero essere le titolari della potestà legislativa in termini di territorio, entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge, dovranno emanare solo norme per la definizione del procedimento amministrativo.
Infine, va detto che nemmeno la presenza di vincoli di inedificabilità ostacola la sanatoria, poiché la procedura resta solo subordinata a specifici, ulteriori pareri da parte delle autorità competenti a gestire il vincolo (ANAS, Soprintendenze, ecc.).
Dunque, non si tratta di un condono leggero.
Il giudizio su questo provvedimento è naturalmente da riferire all’opinione di ciascuno. È però certo che si tratta di una misura inefficace per l’erario, per il territorio e per il senso civico complessivo, aprendo nuovamente il fuoco per attacchi agli equilibri già compromessi dell’ecosistema.
Resta aperta la possibilità, innescata da un ricorso presentato dalla regione Toscana, che il condono edilizio possa essere ritenuto incostituzionale, poiché in contrasto con i disposti del modificato articolo V della Costituzione. Le tematiche urbanistiche e territoriali sono, infatti, materia “concorrente”, a prevalente competenza regionale. Dunque, se così fosse, lo Stato avrebbe compiuto una mossa falsa.
Al di là di ciò vi è comunque il dato relativo al fatto che questo provvedimento si inserisce in altri simili atti di questo governo, ispirati dal medesimo, pericoloso, disegno: pensare solo ed esclusivamente all’oggi, anche a costo di ferire principi sino ad oggi condivisi, compromettendo gli esiti futuri.
Per dirla con Edoardo Salzano, “… lo sciagurato condono edilizio, è solo uno degli episodi di dissipazione della ricchezza comune. Ricordiamo gli altri: ricordiamo la svendita del patrimonio immobiliare pubblico, ricco di beni culturali di grande pregio, di luoghi di straordinaria bellezza, che avrebbero potuto diventare produttivi anche conservando la proprietà nelle mani della collettività. Ricordiamo la smania di privatizzare tutto quello che può diventare lucroso per i privati anche a danno dell’efficacia del servizio pubblico: dall’energia elettrica ai trasporti collettivi, dalla sanità alle pensioni, dalla scuola alla ricerca. E ricordiamo anche le iniziative che impoveriscono la ricchezza morale del paese: come i condoni fiscali, che premiano i furbi e gli evasori e riducono la credibilità della legge, che dovrebbe essere uguale per tutti”.
Milano, ottobre 2003