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Ugo Andrea; Mattei Palladino
Per la Consulta la merce prevale sul bene
19 Novembre 2010
Clima e risorse
Un articolo e un commento sulla sentenza costituzionale pesantemente sviluppista. Contenti i mercati e i mercamntio, delusi i cittadini. Il manifesto, 19 novembre 2010

La Consulta fa acqua

di Andrea Palladino



È un intervento pesante e profondo quello della Corte costituzionale, che l'altro ieri ha depositato la sentenza di respingimento dei ricorsi fatti dalle regioni Calabria, Toscana, Liguria e Campania contro la legge Ronchi. I giudici della Consulta non si sono limitati a considerare legittime dal punto di vista costituzionale le nuove norme del governo Berlusconi che forzano le tappe della privatizzazione dell'acqua, obbligando i comuni a ricorrere a società di capitali con gare europee. La sentenza, in realtà, va ben oltre: l'intero impianto legislativo degli ultimi anni che ha aperto le porte alle multinazionali dei servizi idrici viene considerato assolutamente compatibile con la Costituzione, con la normativa europea e con quella nazionale. «Decisione devastante», è il commento che girava ieri all'interno del movimento per l'acqua pubblica.

È ancora presto per avere uno studio dettagliato sull'impatto che questa sentenza avrà. Oltre al referendum - che continua a seguire la sua strada, divenendo sempre più importante - i fronti aperti in Italia sul tema della gestione dell'acqua sono tanti. In primo piano c'è sicuramente la nuova legge pugliese, che sta per andare in discussione. Voluta con forza dai movimenti per l'acqua pubblica, fatta propria da Vendola che l'ha messa tra i primi punti del suo programma di governo regionale, punta a sciogliere l'attuale forma di società per azioni per creare un ente di diritto pubblico chiuso ermeticamente alle possibili scalate dei privati. Ora la via pugliese all'acqua pubblica potrebbe essere pesantemente influenzata dalle scelte della Consulta. Nella lunga sentenza - ben 136 pagine - il giudice estensore Franco Gallo spiega che «la normativa riguardante l'individuazione di un'unica Autorità d'ambito e la determinazione della tariffa del servizio secondo un meccanismo di price cap attiene all'esercizio delle competenze legislative esclusive statali nelle materie della tutela della concorrenza e dell'ambiente, materie che hanno prevalenza su eventuali competenze regionali, che ne risultano così corrispondentemente limitate».

Dunque, rispetto all'autonomia delle regioni prevarrebbe l'orientamento del governo centrale. E con Berlusconi a Palazzo Chigi i margini di manovra sono ovviamente estremamente ridotti. Il pronunciamento ha riaperto le speranze del Pdl pugliese, che da sempre punta alla privatizzazione dell'acquedotto, già al centro di appetiti francesi alla fine degli anni '90. Immediato il commento del capogruppo regionale del Pdl Rocco Palese: «Vendola rinunci a portare avanti una legge illegittima». Per ora le due commissioni del consiglio regionale che stanno valutando la proposta di legge per la ripubblicizzazione degli acquedotti hanno optato per una pausa tecnica, dando «la possibilità ai capigruppo ed ai commissari di prendere visione dell'articolata sentenza di 136 pagine».

Le parole della Consulta in realtà colpiscono al cuore l'insieme delle autonomie locali, in un sussulto decisamente centralista. L'opposizione alla privatizzazione dell'acqua è infatti cresciuta soprattutto grazie al movimento dal basso, ai comitati cittadini, alle regioni che hanno scommesso sulla gestione pubblica e a tantissimi comuni che chiedono di riprendersi gli acquedotti privatizzati. Da due anni centinaia di consigli comunali stanno infatti inserendo negli statuti la dichiarazione dell'acqua come servizio senza rilevanza economica. Una formula che esclude, di conseguenza, il ricorso a gare pubbliche e alle società per azioni, sia private che miste. È quello che può essere definito il cuore del più ampio movimento del referendum. È forse questo il vero nemico per il ministro Fitto, uno dei principali sostenitori della privatizzazione: «La Corte ha fatto anche giustizia di singolari tentativi di sostenere la natura non economica del servizio idrico integrato», ha commentato ieri.

In questo scenario il referendum per l'abolizione della legge Ronchi e delle altre norme che di fatto hanno già privatizzato il sistema idrico assume un valore centrale. Fondamentale è la richiesta di moratoria chiesta dal Forum dei movimenti per l'acqua pubblica: fino al voto dei cittadini che nessuno tocchi l'acqua. L'appuntamento per pubblicizzare la richiesta è fissato per il 4 dicembre, con la mobilitazione di centinaia di comitati locali.





Una sentenza che non rispetta

i beni comuni

di Ugo Mattei



La guerra delle valute, i segnali prevedibilmente sconfortanti sulla «ripresa economica» e le fibrillazioni politiche nostrane mostrano come anche in Italia il ciclo inaugurato con la «fine della storia» si sia esaurito. Il nuovo scenario che si sta profilando sarà fondato su una regressione dell'asse Atlantico e sul progressivo tramonto dell'egemonia statunitense, sul piano prima economico, successivamente politico e finalmente culturale. Mentre sotto il profilo economico e politico i segnali non sono ambigui, molto più complessa si profila la partita culturale. In quest'ambito si intravedono i segnali di una ripresa di iniziativa da parte di un'elaborazione di sinistra, dopo che «la fine della storia» ne aveva provocato uno snaturamento profondo. Per vent'anni abbiamo assistito, impotenti, alla trasformazione della sinistra in un'«altra destra» che, sul piano della cultura giuridico-istituzionale, ha sostanzialmente offerto i due contributi essenziali per la strutturazione del nuovo (dis)equilibrio capitalistico fuoriuscito dalla caduta del Muro di Berlino. In primo luogo l'idea dello Stato regolatore, e in secondo luogo quella del dialogo internazionale fra le Corti supreme. Si tratta di due nozioni, entrambe figlie dell'egemonia culturale statunitense, che condividono un grande disegno di tecnologizzazione del diritto e della politica all'insegna di una presunta neutralità istituzionale (è la stessa logica ipocrita del governo tecnico). Lo Stato regolatore deve limitarsi a presiedere, come un arbitro in un incontro di tennis, al rispetto delle regole formali della concorrenza, rinunciando a favore dei privati a ogni ruolo attivo del pubblico nell'economia. A questo quadro di regressione ottocentesca verso uno Stato minimo guardiano passivo dell'efficienza economica (crescita, produttività, sviluppo, ecc) si cerca di recuperare un volto umano attraverso il «dialogo fra Corti supreme». Saranno così i giudici costituzionali di tutto il mondo, oracoli dell'ideologia borghese dei diritti individuali fondamentali, ad elaborare una giustizia (formale) universalista che faccia da contrappeso al trionfo della tecnica e dell'economia.

La valenza ideologica di questo quadro di riferimento fideistico, fondato sull'idolatria del mercato e del regime di legalità, è stata da più parti denunciata nella sua natura reazionaria. Da tempo, inoltre, la cultura giuridico-politica si è posta alla ricerca di nuovi strumenti capaci di invertire la rotta rispetto alla sciagurata mistificazione anti-politica delle privatizzazioni cammuffate da liberalizzazioni. Giustamente si è osservato che una dimensione ecologica e di lungo periodo comincia a caratterizzare in modo non ambiguo quella parte sempre più ampia della sinistra che si svegliata dal sonno delle «lenzuolate», mentre il movimento referendario per l'«acqua bene comune» allarga ben oltre la sinistra un grido d'allarme che soltanto chi si finge sordo non può sentire.

Con la sentenza che rigetta il ricorso di sei regioni contro il decreto Ronchi che obbliga alla privatizzazione dei servizi pubblici e dell'acqua, la Consulta manda un segnale molto preoccupante. Infatti, stabilendo che «le regole che concernono l'affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, ineriscono essenzialmente alla materia tutela della concorrenza, di competenza esclusiva statale», la Corte banalizza questioni di importanza primaria quale l'elaborazione teorica della nozione giuridica di bene comune. Così facendo essa si dimostra vecchia e prigioniera di una logica tecnocratica da fine della storia che le impedisce di produrre cultura giuridica adeguata ai tempi che stiamo vivendo. La prolissità della decisione non nasconde la debolezza teorica di un'argomentazione apodittica e contraria allo stesso diritto europeo. Speriamo che queste retrive convinzioni tecniche che ne hanno fatto un baluardo dello Stato regolatore non siano prodromiche a un respingimento del referendum il prossimo gennaio, perché ciò trasformerebbe un incidente di percorso tecnico-giuridico in un autentico abuso politico-costituzionale.

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