«La scrittrice Suad Amiry racconta la rabbia della sua gente per lo stallo del processo di pace. “La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla”».
La Repubblica, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)
Suad Amiry risponde al telefono da New York, dove vive quando non è a Ramallah. Architetto e scrittrice, con i suoi libri (Sharon e mia suocera, Golda ha dormito qui, solo per citare due titoli, editi in Italia da Feltrinelli), è diventata una delle voci più note della società palestinese.
Signora Amiry, siamo di fronte alla terza Intifada?
«Negli ultimi due anni la situazione dei palestinesi è peggiorata, la vita quotidiana è diventata sempre più difficile. In questi mesi Gerusalemme è stata di fatto isolata: per noi andare a pregare è complicatissimo mentre i coloni ebrei sono riusciti ad entrare anche nella moschea di Al Aqsa. Le politiche di Israele hanno di fatto spinto i giovani per la strada: non c’è stata altra speranza. Questo è il vero problema, non cercare la giusta definizione per quello che sta succedendo ».
Anche i politici palestinesi però hanno commesso clamorosi errori…
«Certo. Abu Mazen ha tentato in tutti i modi di salvare il dialogo e per fare questo si è piegato al punto di perdere la faccia con i suoi, soprattutto con i più giovani. Gli israeliani non troveranno mai più un leader così moderato come il presidente Abu Mazen, eppure neanche con lui sono riusciti a sedersi intorno a un tavolo. Il risultato è l’arrivo sulla scena di una nuova generazione, che per mettere fine a questa situazione va in strada. Sono stata nel team dei negoziatori palestinesi e posso dire con certezza che quelli come me, che per anni hanno predicato la necessità di riconoscere lo Stato di Israele, oggi appaiono ridicoli agli occhi della maggior parte della gente dei Territori e della Striscia di Gaza. Noi chiedevamo rispetto, ma Netanyahu si è messo in tasca le nostre parole. Per anni Abu Mazen ha fatto arrestare chi scendeva in strada contro Israele: abbiamo fatto i protettori dei nostri occupanti. Ed ecco il risultato».
Sta dicendo che non c’è più speranza per l’eterno conflitto israelo-palestinese?
«No, non dico questo. Certo che c’è speranza: i ragazzi non sarebbero in strada se non avessero speranza. La speranza è che finisca l’occupazione. Questa situazione così ingiusta non può andare avanti per sempre. Vogliamo la pace, vogliamo una soluzione: ma bisogna essere in due per avere queste cose. Quello che non vogliamo, che non possiamo accettare, è continuare a vivere in uno stato di apartheid».
Cosa vede nel futuro?
«Le dico cosa vedo nel presente, qui in America, il paese dove ho studiato negli anni ’70 e dove per anni l’opinione pubblica è stata in modo compatto dalla parte di Israele. Oggi anche qui un numero crescente di persone iniziano a capire come vivono i palestinesi. La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla. L’apartheid finì quando il mondo disse basta, quando l’embargo economico diventò forte e mise alle strette il governo. Io mi auguro che presto accada lo stesso per noi».