Puntuale come gli acquazzoni di fine stagione, piove dal governo l’attesa grida che proclama l’imminente salvezza della patria, se solo ci decidiamo a vendere monumenti e segmenti del patrimonio immobiliare pubblico.
Quest’idea di seconda mano si trascina da oltre vent’anni con risultati miserevoli, eppure a ogni crisi spuntano medici improvvisati che promettono all’Italia malata di debito guarigioni miracolose a suon di dismissioni. Comiciò Guido Carli, ministro del Tesoro con Andreotti nel 1991, proponendo una “Immobiliare Italia S.p.A.”, rimasta sulla carta finché il suo fantasma, invecchiato e inacidito, si materializzò dieci anni dopo con la “Patrimonio dello Stato S.p.A.” di Tremonti.
Ma intanto le ipotesi di dismissioni venivano rilanciate quasi a ogni Finanziaria (anche coi governi di centrosinistra): quelle norme confuse e velleitarie costruirono un retroscena di “precedenti” per Berlusconi, che appena insediatosi a Palazzo Chigi nel 2001 rilanciò il tema con la legge 410. In essa si colpiva al cuore l’inalienabilità dei beni demaniali, resi disponibili alla vendita con decreto del ministro dell’Economia.
La “Patrimonio S.p.A.”, col suo sistema di scatole cinesi e “cartolarizzazioni” che innescava la privatizzazione dell’intero demanio e patrimonio pubblico, è stata un fallimento epocale (fu lo stesso Tremonti a firmare nel 2011 il certificato di morte), un costoso carrozzone che non ha ridotto di un centesimo il debito pubblico, anzi ha peggiorato il conto patrimoniale dello Stato senza produrre alcun beneficio di lunga durata.
Con l’acqua della crisi alla gola del governo, si susseguono gesti retorici che mediante l’effetto-annuncio spargono foglie di fico sull’assenza di progetti per il futuro. Della stessa natura è l’etichetta bugiarda di spending review, indistinguibile dai famigerati “tagli lineari” (cioè alla cieca) di Tremonti; eppure il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, in un’intervista a questo giornale (5 agosto) ha esortato a «evitare la filosofia dei tagli lineari ».
Come fosse un’impensata fatalità, i tagli del governo si accaniscono invece sulla spesa sociale e sulla cultura, corrodono l’equità, diffondono una cortina di fumo che comprime la crescita, ma la sbandiera come se ci fosse. Ma le politiche di austerità mirate solo a ridurre il debito frenano l’economia, riducono la competitività e fanno lievitare il deficit nel suo rapporto percentuale con un Pil in calo (è un paradosso osservato da George Soros).
Intanto i tagli in nome del debito pubblico danno per scontato che gli sprechi (che ci sono) siano dovuti alla spesa sociale (che non è uno spreco): ecco perché la scure si abbatte su sanità, scuola, previdenza, cultura. Si occulta invece una scomoda verità: l’accumulo del debito pubblico è aggravato dal debito di banche e imprese, regolarmente ripianato da interventi degli Stati (37% del Pil in Europa a fine 2011, secondo dati Bankitalia). I paladini della deregulation neo-liberista, quando i loro buchi di bilancio diventano voragini, si tramutano sull’istante in neokeynesiani, invocano l’intervento dello Stato e con subita metamorfosi il debito privato diventa debito pubblico, e i cittadini vengono borseggiati. Non solo: dopo essersi mostrati incapaci di amministrare se stessi, banche e mercati si sostituiscono ai governi, colpendo al cuore i principi della democrazia.
Questo processo è ancor più feroce in Italia, perché si aggancia alla cancrena dell’evasione fiscale, nostro non invidiabile primato. Il presidente Monti ha il merito di aver infranto su questo tema la congiura del silenzio di cui furono complici destra e sinistra; tuttavia, non ha (ancora?) lanciato misure commisurate alle gigantesche dimensioni del problema: 142,47 miliardi di tasse non pagate nel 2011, 154 la proiezione per il 2012 (dati Confcommercio). Gli introiti fiscali sono stati irresponsabilmente frenati distribuendo iniquamente la pressione tributaria, massima sui percettori di reddito fisso e quasi opzionale su tutti gli altri, per non dire di sconti, deroghe e condoni. I mancati introiti impediscono di risanare il debito, accrescendolo nel tempo coi relativi interessi e facendo gravare sui più deboli anche i contributi di Stato a copertura delle perdite bancarie. Solo rimuovendo cinicamente dalla scena l’evasione fiscale e i suoi effetti si può sostenere che le dismissioni delle proprietà pubbliche e i tagli alla spesa sociale siano le sole leve disponibili per ridurre il debito.
La dismissione di beni demaniali non è solo inefficace, è anche incostituzionale. La proprietà pubblica è infatti attributo necessario della sovranità, che spetta al popolo (art. 1 Cost.). Demanio, beni pubblici, beni comuni e beni culturali sono, nel disegno della Costituzione, beni essenziali a garanzia dell’esercizio dei diritti civili e degli interessi collettivi (libertà, salute, democrazia, cultura, eguaglianza, lavoro). Sono, come ha scritto la Commissione Rodotà, «funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona». Diritti dei cittadini e beni economici che ne sono la garanzia fattuale si stringono in un solo nodo: vendere le proprietà pubbliche e comprimere i diritti sono due facce della stessa medaglia. In questa corsa al peggio, la farsa del federalismo demaniale si segnala, secondo Paolo Maddalena (giudice emerito della Corte costituzionale), per la violazione di nove articoli della Costituzione, ma anche del principio di «equa ripartizione dei beni fra tutti i cittadini, ispirato ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico».
Su questo banco di prova il governo Monti si è mostrato finora inadeguato alla sfida. A una stanca retorica dello sviluppo (che secondo Passera coincide con grandi opere, piattaforme petrolifere a un passo dalla costa e massicce cementificazioni) non ha saputo sostituire un progetto di crescita produttiva del Paese.
Ha lanciato un’ottima legge sui suoli agricoli (proposta dal ministro Catania), ma senza darle l’assoluta priorità che sarebbe necessaria, accelerando intanto i tempi di approvazione della pessima norma sugli stadi, col suo enorme spreco di suoli e di risorse pubbliche per basse operazioni immobiliari (la Repubblica, 17 maggio).
Intanto il ministro dell’Ambiente Clini sponsorizza l’orrido grattacielo di Pierre Cardin che sfregerà per sempre Venezia, e il ministro dei Beni culturali Ornaghi coltiva un attonito silenzio. Di fronte all’incerto futuro del Paese, non è accettabile che di ambiente si parli solo per promuoverne le devastazioni, di patrimonio solo per svenderlo.
Se i suoi ministri non sanno elaborare un’idea degna del Paese e della sua Costituzione, possiamo aspettarci che il presidente Monti si impegni in prima persona, ci dica quale è la sua?