PAPA FRANCESCO E IL LAVORO
Genova, 27 maggio 2017
«E' la prima volta - ha detto il Papa - che vengo a Genova: essere così vicino al porto mi ricorda da dove è uscito il mio papà, mi fa una grande emozione. Grazie dell'accoglienza!». Poi è entrato subito nel merito della sua visita allo stabilimento, rispondendo a Ferdinando, Micaela, Sergio, Vittoria, ovvero un imprenditore, una lavoratrice interinale (in rappresentanza di CGIL, CISL e UIL), un lavoratore, una disoccupata che hanno parlato al Papa in rappresentanza del mondo del lavoro
Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Non dimentichiamo che l’imprenditore deve essere prima di tutto un lavoratore! Se lui non ha questa esperienza della dignità del lavoro non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori e condivide le gioie del lavoro, del risolvere insieme i problemi, del creare qualcosa insieme. Un buon imprenditore ha a cuore la propria azienda e i lavoratori che ne fanno parte e ne sostengono i risultati con la loro opera…
È importante riconoscere le virtù dei lavoratori e delle lavoratrici. Il loro bisogno è il bisogno di fare il lavoro bene perché il lavoro va fatto bene. A volte si pensa che un lavoratore lavori bene solo perché è pagato: questa è una grave disistima dei lavoratori e del lavoro, perché nega la dignità del lavoro: le persone lavorano bene innanzitutto per la propria dignità e il proprio onore.
Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente! Un buon imprenditore non licenzia e se è costretto a farlo soffre, lotta, perché è la sua gente, la sua famiglia… perché privare una persona del lavoro significa privarla della dignità. Da questa sofferenza nascono spesso buone idee per limitare i licenziamenti.
Chi pensa di risolvere i problemi della sua impresa licenziando non è un buon imprenditore, è un ‘commerciante’: oggi vende la sua gente, domani la sua stessa dignità. La mancanza di lavoro è molto più del venir meno di una fonte di reddito per vivere. Il lavoro è anche questo, ma è molto di più: lavorando diventiamo più persone, la nostra umanità fiorisce. […] Il lavoro è partecipazione alla creazione, che continua grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori.
Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che possiamo sperimentare lavorando. Come ci sono pochi dolori più grandi di quando il lavoro schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro. Con il lavoro gli uomini e le donne sono unti di dignità.
Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori, sono due tipi diversi. […] Lo speculatore non ama la sua azienda e i lavoratori ma li vede come mezzi per fare profitto, licenziare, chiudere spostare l’azienda: tutto questo non gli crea problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto.
Quando l'economia passa nelle mani degli speculatori tutto si rovina, l'economia perde il suo volto… e i volti dei lavoratori… E’ una economia senza volti, astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone e quindi non si vedono le persone da licenziare, tagliare...
Se l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete diventa un'economia senza volto e quindi spietata. Bisogna temere gli speculatori, non i bravi imprenditori.
Ma paradossalmente qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché? Perché crea burocrazia e controlli partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è, è svantaggiato, chi invece lo è, trova i mezzi per eludere i controlli. Si sa che i regolamenti e le leggi pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti.
Bisogna guardare senza paura e con responsabilità alle trasformazioni tecnologiche e non rassegnarsi all’ideologia che immagina un mondo dove solo la metà o i due terzi dei lavoratori lavoreranno, mentre gli altri saranno disoccupati, mantenuti da un assegno sociale. Senza lavoro si può sopravvivere, ma per vivere occorre il lavoro… la scelta è tra il sopravvivere e il vivere.
Dunque, la risposta non deve essere reddito per tutti ma lavoro per tutti, perché altrimenti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso, pensiamo alla rivoluzione industriale. Ci sarà una rivoluzione, ma dovrà essere lavoro, non pensione! Non pensionati, lavoro! Si va in pensione all’età giusta. E’ un atto di giustizia ma contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35-40 anni, con assegno dello Stato. Se mi metto nei panni di un prepensionato posso dire: "Ho per mangiare? Sì. Ho la dignità? No, perché non ho il lavoro”.
I valori del lavoro stanno cambiando molto velocemente e molti dei valori della grande impresa e della grande finanza non sono in linea con la dimensione umana e pertanto con l’umanesimo cristiano.
Molte persone sono messe sotto un ‘ricatto sociale’: quello di chi - facendo leva sul dramma della disoccupazione - le vorrebbe costringere ad accettare le più infime condizioni pur di lavorare. Occorre invece promuovere, attraverso il lavoro, un ‘riscatto sociale’.
L’accento sulla competizione, oltre a essere un errore antropologico, è anche un errore economico perché dimentica che l’impresa è cooperazione mutua. Un sistema che mette in competizione i lavoratori tra loro - fin dentro l’impresa, attraverso sistemi incentivanti - magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio economico ma finisce col minare quel tessuto che è l’anima di ogni organizzazione e così quando arriva una crisi l’azienda si sfilaccia e implode, perché non c’è più nessuna corda che la tiene. Questa cultura competitiva è un errore, è una visione che va cambiata se vogliamo il bene dell’impresa, dei lavoratori e dell’economia.
Un altro valore che in realtà è un disvalore è la meritocrazia oggi tanto osannata, che affascina molto perché usa una parola bella: il ‘merito’; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. Al di là della buona fede di tanti che la invocano, la meritocrazia sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono ma come un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi.
Così, se due bambini nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E quando quei due bambini andranno in pensione, la diseguaglianza tra di loro si sarà moltiplicata.
Una seconda conseguenza della cosiddetta “meritocrazia” è il cambiamento della cultura della povertà: il povero è considerato un demeritevole, e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Questa è la vecchia logica degli amici di Giobbe che volevano convincerlo che fosse colpevole della sua sventura, ma questa non è la logica del Vangelo e della vita. La meritocrazia nel Vangelo la troviamo nella figura del fratello maggiore del figliol prodigo che disprezza il fratello minore e pensa che debba restare un fallito. Il padre invece pensa che nessun figlio si ‘merita’ le ghiande dei porci.
C’è anche chi è pagato molto perché il lavoro prenda tutta la vita, senza orari: è un paradosso della nostra società la presenza di una moltitudine di persone che vorrebbero lavorare e non hanno l’opportunità, mentre altri che vorrebbero lavorare meno non possono perché sono stati comprati dalle imprese.
Il lavoro diventa fratello quando accanto a esso c’è la festa, il tempo libero. Senza questo aspetto diventa lavoro schiavistico, anche quando è superpagato. Nelle famiglie dove ci sono disoccupati non è mai veramente domenica, perché manca il lavoro del lunedì: per celebrare le feste è necessario poter celebrare il lavoro, vanno insieme, l’uno scandisce il tempo dell’altro.
Il consumo è un idolo del nostro tempo, è il centro della nostra società. Oggi ci sono i nuovi templi aperti 24 ore, che promettono la salvezza, punti di puro consumo e presunto ‘piacere’.
Il lavoro è fatica, e sudore: quando una società edonista vede e vuole solo il consumo, non capisce il valore della fatica e del sudore, non capisce il lavoro. Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo. Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore, non ritroveremo un nuovo rapporto con il lavoro e continueremo a sognare il consumo del puro piacere.
Il lavoro è il centro di ogni patto sociale non un mezzo per potere consumare. Tra il lavoro e il consumo ci sono tante cose, tutte importanti e belle: libertà onore, dignità, diritti di tutti. Se svendiamo il lavoro al consumo, svenderemo presto anche queste parole sorelle.
Mi piace molto il primo articolo della Costituzione italiana: possiamo dire che togliere lavoro alla gente o sfruttarla con un lavoro indegno e malpagato è anticostituzionale! Se non fosse fondata sul lavoro la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto del lavoro lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite.
Oggi il lavoro è a rischio e nel mondo non si considera con la dignità che ha, invece il lavoro è una priorità umana… e pertanto è una priorità cristiana, e anche una priorità del Papa.