Sono pagati (poco) per il fondamentale compito di nutrire un'umanità sempre più numerosa. Ma agricoltrici e agricoltori - la classe di lavoratori più numerosa sul pianeta - dovrebbero essere remunerati anche per i servizi reali di protezione dell'ambiente contro il caos climatico, la perdita di biodiversità e la limitatezza delle risorse idriche; tanto più negli ecosistemi fragili in cui vivono un miliardo di persone povere nei paesi «in via di sviluppo». Paying farmers for environmental services (Pagare gli agricoltori per i loro servizi ambientali) è il focus del rapporto 2007 The State of Food and Agriculture-Sofa (Lo stato dall'agricoltura e dell'alimentazione) presentato ieri a Roma dalla Fao.
Non che il ruolo ecologicamente benefico dell'agricoltura sia scontato. Anzi, come ha detto Jacques Diouf, direttore dell'agenzia Onu, quest'attività «potenzialmente può degradare le risorse naturali del pianeta - suolo, acqua, atmosfera - o valorizzarle, a seconda delle decisioni prese da oltre due miliardi di persone» le quali ne ricavano le fonti di sussistenza e alle quali vanno offerti incentivi adeguati perché si sentano invogliati a offrire servizi ecologici adottando migliori pratiche agricole. Va detto che attualmente sono all'opera piuttosto una quantità di sussidi perversi, ad attività agroalimentari nocive per l'ambiente, energivore e idrovore; sussidi poco vantaggiosi per i piccoli contadini e profittevoli per l'agrobusiness. Alcuni esempi sono: le sovvenzioni alle esportazioni alimentari da parte di Ue e Usa; i sussidi agli allevamenti anche intensivi e alle colture mangimistiche; gli incentivi agli agrocarburanti; quelli ai costi energetici dell'irrigazione, come all'uso di fertilizzanti e pesticidi di sintesi. Rimuovere o ridurre tali elargizioni aiuterebbe assai a riorientare i modelli produttivi. Il resto lo farebbe appunto l'attribuzione di un valore economico-monetario ai servizi invece utili: l'immagazzinamento di carbonio (mentre attualmente l'agricoltura è responsabile del 30 per cento di tutte le emissioni di gas serra), il controllo delle inondazioni, la fornitura di acqua pulita, la conservazione della biodiversità. La sinergia di fattori quali minore deforestazione, rimboschimento, riduzione di una eccessiva lavorazione del terreno, incremento della copertura del suolo, una migliore gestione dei pascoli, e perché no la produzione di energia solare, eolica e da scarti (ben più problematici gli agrocarburanti) potrebbero portare all'immagazzinamento di oltre due miliardi di tonnellate di carbonio tra il 2003 e il 2012, secondo i calcoli della Fao.
Il meccanismo di mercato degli incentivi pubblici (o privati, le modalità possibili sono varie) necessita di una definizione dei soggetti aventi diritto, il che a sua volta rimanda all'annosa questione della sovranità e dei diritti di proprietà. E non è privo di rischi (fra cui il notorio effetto scaricabarile, se settori responsabili di ingenti emissioni climalteranti potranno liberarsi di ogni responsabilità passando un obolo a contadini rispettosi del clima...) ma può funzionare se abbinato ad altri interventi come l'informazione, il trasferimento di tecnologie e perché no i divieti di pratiche desuete e dannose. Uno degli esempi più precoci in un paese del Sud del mondo è il Programma di pagamento nazionale dei servizi ambientali del Costarica, destinato a chi manteneva in piedi superfici forestali; è stato la carota che ha accompagnato proficuamente il bastone delle restrizioni legali ai tagli. Un altro esempio riguarda la Cina: che nel 1999, dopo una serie di inondazioni devastanti, lanciò il programma Grain for Green per accrescere la copertura forestale intorno ai bacini dello Yagntze e del Fiume Giallo, per bloccare l'erosione: i contadini si impegnavano a destinare a bosco una parte dei terreni e in cambio ricevevano cereali, denaro e piantine.
Ma sono tuttora relativamente pochi i programmi per i servizi ambientali che mirano agli agricoltori e ai terreni agricoli dei paesi in via di sviluppo.