il manifesto, 31 gennaio 2017
Al quarto giorno dalla decisione di Donald Trump di mettere al bando rifugiati e cittadini di sette paesi musulmani l’Unione europea finalmente decide di reagire. Lo fa per rispondere alle accuse del presidente americano, che ha descritto quello europeo come un continente precipitato nel «caos» per non aver saputo difendere le proprie frontiere, ma anche per ribadire quei valori che sono stati la base fondativa dell’Unione.
L’Europa «non discrimina le persone sulla base della nazionalità, dell’etnia o della religione», commenta da Bruxelles la portavoce della Commissione europea, mentre da New York si fa sentire anche l’Alto commissario Onu per i diritti umani, il giordano Zeid Ràad al Husseini. Il bando è «illegale e meschino» dice, e «la discriminazione basata sulla nazionalità contraria ai diritti umani». Si unisce infine al coro di proteste anche l’Unione africana che definisce quella di Trump come «una della più gravi sfide nei confronti del continente africano».
Bruxelles è a dir poco preoccupata dal nuovo corso statunitense.
Dal giorno del suo insediamento Trump non ha certo fatto mistero di quanta poca considerazione abbia per l’Unione europea tanto da aver apprezzato pubblicamente la decisione della Gran Bretagna di uscire dall’Unione.
«Per l’Europa Trump è una minaccia peggiore della Brexit», ha commentato ieri l’ex premier belga Guy Verhostad, presidente del gruppo Alde (liberali) al parlamento di Strasburgo. Pericoloso anche perché dal bando non sarebbero esclusi neanche i cittadini europei con doppia nazionalità.
«La situazione non è chiara», ha proseguito la portavoce della Commissione Ue. «Ci arrivano imput contrastanti e i nostri legali stanno lavorando. Ci accerteremo che non ci siano discriminazioni nei confronti dei nostri cittadini».
A quanto pare, però, ci sarebbe poco da capire.
Un portavoce del ministero degli Esteri tedesco ieri ha informato di un tweet dell’ambasciata americana a Berlino in cui si chiede ai cittadini con doppia nazionalità di «non chiedere visti per gli Stati uniti». La misura riguarda decine di migliaia di cittadini tedeschi, come ha subito informato il governo secondo il quale ad essere colpiti dalla restrizione sarebbero 80 mila tedeschi di origine iraniana, oltre 30 mila di origine irachena e circa 25 mila provenienti dalla Siria. A questi vanno aggiunti poi mille sudanesi, 500 libici e 300 yemeniti. Numeri calcolati per difetto, visto che risalgono ai censimenti regionali del 2011.
L’indignazione per la porta sbattuta in faccia a rifugiati e musulmani da Trump cresce ovunque, ma non sembra coinvolge allo stesso modo anche tutti i governi. Così mentre in Gran Bretagna più di 1,4 milioni di persone firmano in due giorni una petizione in cui si chiede al parlamento di bloccare o almeno rinviare la visita di Stato già in programma del presidente Usa, Dowing Street preferisce smorzare i toni. «Noi non siamo d’accordo con queste restrizioni, non è il modo con cui agiremmo», dice un portavoce del governo escludendo però l’ipotesi di una marcia indietro sull’invito. Esclusione basata sia dall’assicurazione che avrebbe ricevuto Theresa May che i cittadini britannici con doppia nazionalità non saranno fermati alla frontiera Usa a meno che non volino in America direttamente da uno dei paesi indicati nella lista nera. Ma anche perché la stessa May sta bene attenta a garantirsi un alleato sicuro e di peso in vista della Brexit. E, d’altro canto, non può non colpire il silenzio dei paesi dell’est Europa di fonte alle misure adottate dal presidente americano.
Per quanto riguarda la Russia, poi, ieri un portavoce del presidente Putin (che il 2 febbraio sarà in visita a Budapest) ha liquidato le polemiche attorno al bando con un secco «ritengo che non sia un affare nostro».