Ammettiamo pure che Renzi riesca, come ormai si dice, quasi fosse un biscazziere che tenta la fortuna. Un linguaggio, applicato a un presidente del Consiglio e relativo alle sorti di un grande paese, che segnala il punto ultimo di banalizzazione e scadimento cui è giunta la vita politica nazionale. Ammettiamolo, ipotizzando che il successo possa venire da qualche riforma istituzionale riuscita, da qualche rattoppo legislativo e da altri risultati parziali sfruttabili sul piano della propaganda mediatica. Questo è il massimo che un osservatore ottimistico può concedere alla propria immaginazione fiduciosa. Assai più probabile è che il governo Renzi costituisca una replica, certo più vivace sotto il profilo comunicativo, del governo Letta. Ci sono infatti tutte le condizioni perché la situazione economica di una parte crescente della popolazione tendi a peggiorare, la disoccupazione rimanga inscalfita almeno per tutto il 2014 (previsioni della Banca d’Italia) e le politiche di rigore dell’Ue rimangano entro i vincoli dogmatici che hanno generato la bufera della deflazione europea. Quelle politiche che Renzi non si sogna neppure di contestare. Come già con i precedenti governi, di centrodestra e di larghe intese, in questi anni di tracollo dell’economia, il volto della politica continua a mostrarsi feroce nei confronti delle popolazioni e mite nei riguardi delle imprese e del potere finanziario. Forte con i deboli e debole con i forti come qualcuno ebbe a dire in un tempo ormai remoto.
Ma, qualunque sia lo scenario del Paese nei prossimi due-tre anni, una cosa appare ormai certa e prevedibile nel sue prossime evoluzioni. Il Pd non sarà più un partito di centrosinistra, tanto meno di sinistra, quale mai è stato. Sarà sempre più quello che in parte è già oggi, come osservato da tanti commentatori: un partito personale, anzi neppure un partito (la liquidazione di questo termine infamante è stata annunciata), ma una agenzia di marketing elettorale, nuova fiammante come una Ferrari uscita di fabbrica. E che questo stia accadendo e accadrà a prescindere dalle dichiarate intenzioni di Renzi e del suo gruppo lo dicono i fatti osservati. Non c’è solo da prendere atto che Renzi, formando un nuovo governo senza passare per le urne, replica e amplifica il tradimento nei confronti degli elettori del Pd, già consumato da Letta. Non realizza soltanto le larghe intese, per limitati e transitori atti di governo, ma mette in piedi un esecutivo di legislatura, estendendo a Berlusconi la presenza sostanziale in un disegno di riforma costituzionale. Gli elettori del Pd ne saranno edificati. Ma, si ricorderà, dentro quel partito, prima dell’avvento di Renzi, 101 parlamentari hanno tradito il loro impegno, non votando Prodi alla presidenza della Repubblica, infliggendo un vulnus incaccellabile all’ onore di quel organismo. Ora Renzi, che aveva rassicurato sino a pochi giorni prima il suo compagno Letta, lo caccia via senza una qualche plausibile ragione che non sia di pura forza.
Dunque, che messaggio lancia a tutti i suoi compagni? Che cosa resta, dentro il Pd di quella speciale stoffa che tesse i rapporti umani, un tempo definita morale? Se il partito non è di sinistra, perché non persegue ideali di uguaglianza, non si schiera dalla parte dei lavoratori – gli uomini e le donne che faticano dalla mattina alla sera per miseri salari, generando la ricchezza di questo Paese — quale collante lo tiene insieme? Che cosa se non l’interesse dei singoli per finalità di carriera personale animerà il collettivo? Ed è facile immaginare, anche perché è già in atto, quale logica darwiniana ispirerà la selezione dei gruppi dirigenti nella periferia del partito, che evidentemente premierà i caratteri geneticamente dominanti della spregiudicatezza, della capacità di manovra e di conquista. Ricordo sommessamente che conosciamo già i tratti tragici di questa vicenda. Essa ha già percorso la storia nazionale, lasciandoci in eredità magnifiche rovine. Bettino Craxi fece qualcosa di simile con il Psi. E la distruzione di quel partito — divenuto ben presto il bastone del Capo – così come il danno incalcolabile alla sinistra e al Paese, fu tanto più facile e possibile quanto il tentativo venne premiato dal successo personale e dai risultati politici iniziali. Tanto la riuscita che l’insuccesso di Renzi apre ugualmente scenari inquietanti e indesiderabili, quanto meno per la sinistra italiana. Schieramento politico la cui sorte a me non appare separabile da quella del Paese.
Ma tanto l’uno che l’altro esito non interrogano anche noi? Noi sinistra radicale, costellazione divisa e dispersa di movimenti, gruppi, piccoli partiti, personalità? Noi che da almeno un decennio conduciamo lotte, vinciamo referendum di portata storica, eleggiamo qualche sindaco significativo, produciamo idee e cultura politica nuova, esprimiamo figure intellettuali di primissimo piano, diamo un contributo di prim’ordine all’analisi del capitalismo contemporaneo, ma non riusciamo a organizzare questa frammentata ricchezza in un organismo politico comunque denominato?
In questo momento questa vasta area sta compiendo un piccolo miracolo. Sta portando in porto la candidatura di Alexis Tsipras alla Commissione europea e selezionando la lista dei candidati che dovranno accompagnarlo nella competizione del prossimo maggio. L’idea di un comitato promotore che diventa comitato di garanti, per la felice iniziativa di Barbara Spinelli, sta funzionando, anche se bisognerà mettere nel conto qualche errore e qualche sbavatura per i tempi strettissimi entro cui esso è costretto a operare. Ma questa breve esperienza ci dice alcune cose su cui occorrerà riflettere, da cui partire per tentare il grande mare di un possibile progetto politico. Intanto occorre compiacersi di un dato non scontato in partenza: il fatto che l’autorevolezza dei membri che compongono il comitato non sia stata messo in discussione. Nessuno ne ha contestato la legittimità. È un successo importante, un principio d’autorità necessario. È la conferma di un fatto noto: esiste nell’area della sinistra un folto gruppo di personalità di larga popolarità e spesso di indiscussa autorevolezza. È un patrimonio prezioso, un punto di partenza rilevante. Ebbene, lo usiamo solo per rispondere all’iniziativa dell’avversario, per difendere la Costituzione – come è accaduto, certo con successo – per l’esperienza della Via maestra di Rodotà e Landini? E poi riponiamo la spada nel fodero e tutti a casa? Lo mettiamo in campo solo per selezionare e frenare la rissa dei candidati in occasione delle competizioni elettorali? E staremo nei prossimi mesi, una volta conclusasi la campagna elettorale europea, a osservare i segni di cedimento dentro il Pd, ad attendere qualche probabile scissione dentro quell’organismo? Non dobbiamo cambiare prospettiva?
Io credo che oggi dovremmo puntare a una più grande e urgente ambizione: creare un grande tavolo di discussione, di confronto, di ricerca tra tutte le forze in campo. Una sorta di Costituente della sinistra dove si confrontino idee, posizioni, proposte, senza avere sul capo l’urgenza deformante di una campagna elettorale alle porte. So bene quanto sia difficile la riuscita di un simile laboratorio, che dovrebbe puntare alla creazione di una forma politica nuova, una federazione di forze tenuta insieme da vincoli e regole severe e ben definite. So bene quanta rissosità, settarismo, superficialità, alberga tra le nostre file. Ma se non si tenta adesso una tale strada, in presenza di una delle più grandi crisi della nostra storia, con fondamenti della nazione in pezzi (la scuola, l’Università, la piccola industria, la giustizia amministrativa, la legalità repubblicana, il territorio), quando mai si tenterà la provvida avventura? Lasceremo a Grillo, opposizione urlante e politicamente inetta il compito di raccogliere il grido di dolore di milioni di italiani? E non dobbiamo pensare che quando giungerà il momento delle elezioni nazionali – se questo governo dovesse durare – c’è il rischio che il Paese sia riconsegnato alle destre o sia reso ingovernabile?