loader
menu
© 2024 Eddyburg
Luigi Cavallaro
Oltre la frontiera di un pensiero unico
2 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
Dalla critica all’economia del capitalismo nell’età della globalizzazione neoliberista ai tentativi di una nuova economia. Da il manifesto del 7 ottobre 2007

Eppur si muove. Prima il convegno promosso da questo giornale nel settembre 2005, poi l'appello per la stabilizzazione del debito pubblico del luglio 2006, adesso il nuovo convegno «L'economia della precarietà», che si terrà a Roma il prossimo 9 ottobre (appuntamento a partire dalle 9 presso il Centro Congressi Cavour, Via Cavour 50/A), stanno facendo emergere quella che può ben definirsi la Rive Gauche dell'economia politica italiana: un nutrito gruppo di economisti e intellettuali, accomunati non solo da intenti genericamente critici nei confronti delle analisi e delle ricette di policy somministrate dal mainstream di ispirazione neoclassica, ma anche da una «visione» e da una «tecnica» schumpeterianamente intese: ossia, rispettivamente, da un punto di vista circa le caratteristiche fondamentali di questo stato della società, vale a dire «circa quello che è o non è importante ai fini della comprensione della vita in un determinato momento», e da un insieme di procedimenti con i quali concettualizzare questa visione e trasformarla in concrete proposizioni o «teorie».

Una scarsità solo sociale

La «visione» diffusa nella Rive Gauche origina per lo più dall'analisi del processo economico dovuta a Marx, Keynes, Kalecki, Sraffa. La società in cui viviamo, si dice, non è una «società di individui» che offrono ciò che producono e domandano quel che desiderano sotto il vincolo della massimizzazione di utilità scaturenti da preferenze date ex hypothesi, ma una società dominata dal modo di produzione capitalistico, in cui i redditi traggono origine dalla lotta di capitalisti e salariati intorno all'appropriazione del sovrappiù sociale (ma prima ancora, in verità, intorno alla definizione del sovrappiù, la sussistenza essendo un prodotto storico e non un dato di natura) e in cui il processo sociale di produzione, distribuzione, scambio e consumo è guidato dalla domanda aggregata e non dai «risparmi». Di più: è una società in cui il lavoro individuale diventa sociale mediante lo scambio con quell'equivalente generale del lavoro umano che è il denaro e in cui quest'ultimo, funzionando come capitale monetario, impone specifiche «scarsità» di ordine squisitamente sociale, che nessuna parentela hanno con le scarsità ecologiche, ossia con il progressivo esaurimento di talune risorse naturali.

La «tecnica», dal canto suo, si avvale delle analisi messe a punto da (almeno) due dei diversi filoni della critica della teoria economica che traggono alimento dagli autori sopra ricordati: l'approccio classico del sovrappiù e l'approccio del circuito monetario. La condizione di «vitalità» del sistema economico capitalistico, il fatto cioè che il sistema debba assicurare non solo la reintegrazione dei mezzi di produzione impiegati ma anche un determinato saggio del profitto, viene naturalmente collegata alla chiusura del circuito monetario dei prestiti bancari, mentre il conflitto sociale viene a strutturarsi non solo intorno alla quota del sovrappiù appropriabile dalla classe lavoratrice, ma anche e soprattutto intorno alla natura e alla composizione della domanda monetaria per consumi e investimenti.

Sta qui, sia detto per inciso, il motivo per cui dalla Rive Gauche si guarda con «simpatia» al disavanzo pubblico, beninteso nell'ipotesi che vada a finanziare l'intervento statale diretto nella produzione: il sostegno che per questa via si viene a offrire alla stessa sostenibilità finanziaria dell'accumulazione capitalistica può implicare, infatti, una modifica rilevante della distribuzione sociale del potere, giacché il finanziamento in deficit amplia in modo potenzialmente «eversivo» il novero dei soggetti abilitati a esercitare il comando sui mezzi monetari e, sotto certe condizioni, può perfino consentire - come storicamente s'è visto - l'emersione di rapporti di produzione che non ripetono il proprio «senso» dal conseguimento di un profitto monetario.

Da questi riferimenti teorici discende un'analisi della realtà economica italiana e internazionale affatto diversa da quelle dominanti. Non è vero, si rileva anzitutto, che la migliore performance dell'economia americana rispetto a quella europea sia riconducibile alle differenze tra il modello sociale americano, improntato al laissez-faire e alla libera concorrenza, e quello europeo, «ingessato» dalle misure a tutela del benessere dei cittadini: decisivo, piuttosto, appare al riguardo il ruolo del dollaro nel sistema monetario internazionale, in quanto le asimmetrie scaturenti dalla sua duplice caratteristica di mezzo di pagamento e moneta di riserva internazionale consentono agli Stati Uniti di attuare politiche espansionistiche a costi relativamente contenuti e di imporre l'onere dei riaggiustamenti a quei paesi - prima le cosiddette «tigri asiatiche», oggi l'India e la Cina - che, specularmente, adottano modelli di crescita basati sul traino delle esportazioni.

Per di più, oggi la situazione è complicata dal fatto che l'Europa sta cercando (anche se, finora, con scarso successo) di guadagnare all'euro lo status di valuta di riferimento internazionale, e ciò «esige» politiche monetarie severe e politiche fiscali perfino draconiane: se ai membri dell'Unione europea dovesse esser consentito di adottare unilateralmente politiche fiscali espansive, si genererebbero facilmente problemi di free-riding tra un paese e l'altro, ci sarebbero pressioni sulla Bce per monetizzare i deficit e per questa via la politica fiscale verrebbe a «disfare» quella tela che la politica monetaria cerca faticosamente di tessere.

Se dunque i vincoli alla domanda appaiono come i principali responsabili del divario di crescita fra Usa ed Europa, la posizione italiana si connota per l'esistenza di vincoli anche dal lato dell'offerta. Dalla Rive Gauche, infatti, si sottolinea l'importanza che sulla competitività internazionale esercita la specializzazione produttiva, quale emerge dalla tecnologia in uso, dall'abilità innovativa e dalla capacità imitativa delle industrie manifatturiere. Paesi che si specializzano in settori tecnologicamente arretrati tendono infatti a registrare tassi di crescita inferiori a quelli dei paesi che si specializzano nei settori tecnologicamente più avanzati, i quali - con un apparente paradosso che fu posto in luce da Nicholas Kaldor - mostrano anche una dinamica più accelerata del costo unitario del lavoro rispetto ai concorrenti.

È per questo che l'Italia è davvero «the real sick man of Europe», come ha scritto l'Economist. Il nostro paese ha consolidato una specializzazione produttiva fortemente sbilanciata nei settori a basso contenuto tecnologico, ha conservato sostanzialmente immutata la (bassa) quota nelle produzioni ad alta tecnologia e perde sistematicamente terreno nei settori a media tecnologia. Il risultato è un crescente disavanzo della nostra bilancia dei pagamenti, che - non più emendabile attraverso svalutazioni della moneta - mette capo ad una imperiosa richiesta di deflazione salariale e, naturalmente, di precarizzazione del lavoro.

Disobbedire a Maastricht

Si dovrebbe aggiungere che questa dinamica è stata accentuata dai cospicui processi di privatizzazione che hanno avuto corso nel nostro paese dalla metà degli anni Novanta, ma non c'è spazio per dirne qui. Già queste considerazioni rivelano però che la nostra economia soffre di una crisi che è ad un tempo di domanda e di offerta: non solo di domanda, non solo di offerta. Richiede investimenti pubblici e programmazione, perché si riorienti la nostra specializzazione produttiva, si rilanci la ricerca di base, si favorisca la crescita dimensionale delle nostre imprese. Serve quindi una finanza specializzata, che recuperi la missione squisitamente pubblica dell'investimento a lungo termine. Serve accrescere il grado e la qualità dell'istruzione dei nostri lavoratori. Serve infine attuare le garanzie di benessere scritte nella nostra Costituzione per i giovani, i disoccupati, gli invalidi, gli anziani.

È per tutto questo che dalla Rive Gauche si sottolinea l'importanza di una politica fiscale che, «disobbedendo» esplicitamente ad uno dei parametri fissati nell'Annesso al Trattato di Maastricht, stabilizzi il livello del debito pubblico in rapporto al Pil in un intorno dei valori correnti. Se è vero che il core franco-tedesco dell'Unione pratica di fatto una politica neomercantilista, rifiutandosi di rimettere in circolo il surplus della propria bilancia commerciale, e se è vero che una compiuta unione politica europea è ancora di là da venire, non c'è altro modo «progressivo» per scansare l'impatto crescente della deflazione e le sue conseguenze in termini di precarietà e imbarbarimento della vita sociale e civile. Rendere flagrante la contraddizione può forse essere il modo per avviarsi a risolverla attraverso opportune modifiche al Trattato di Maastricht, a cominciare dalla clausola che attribuisce alla Bce la gestione esclusiva della politica monetaria e, per questa via (si ricordi il paragrafo 44 di Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa), della distribuzione del reddito.

La revanche noliberista

Su questi cardini, anche se non solo su questi, si può misurare lo scarto che separa la Rive Gauche dagli altri protagonisti del dibattito sulla politica economica. Anzitutto, dai «bocconiani», che si oppongono recisamente a ogni impiego delle politiche fiscali e di bilancio allo scopo di perseguire il pieno impiego. Essi sanno benissimo che politiche del genere implicherebbero più Stato e meno mercato e ai loro occhi (come già agli occhi di Reagan) lo Stato è il problema, non la soluzione. Non c'è nulla di più infondato, s'intende, ma simili concezioni hanno buona stampa in una società come la nostra, in cui il sistema produttivo declina e la componente di prezzo della competitività è quella prevalente.

Ma non meno grande è la distanza che separa la Rive Gauche da quegli «ambientalisti» che - proprio come Malthus - sentono suonare le campane senza mai sapere dove e, in nome di slogan improbabili, giungono a perorare la causa del risanamento a tappe forzate del nostro debito pubblico, quasi fosse sua la colpa di quell'«eccesso di consumi» che avrebbe messo a rischio addirittura la sopravvivenza del pianeta Terra. Al contrario, dalla Rive Gauche si afferma con decisione che stagnazione e declino economico sono nefasti per l'ambiente e che non c'è possibilità di rimediare ai guasti ecologici e sociali (a cominciare dalle drammatiche emergenze che si vivono quotidianamente nei grandi agglomerati urbani) senza cospicui investimenti pubblici e senza una ristrutturazione delle forme di consumo.

Se la critica della politica economica promossa dalla Rive Gauche possa ambire in un prossimo futuro a contendere l'egemonia dell'ortodossia neoclassica non sappiamo: codesta egemonia, infatti, si fonda sul fatto che la crisi che stiamo attraversando - nel nostro paese, ma non solo - ha preso corpo e forma sul finire degli anni '70 come «crisi dello Stato». Vale la pena ricordarlo: Reagan, la Thatcher e la revanche neoliberista precedono il crollo del Muro di Berlino e l'implosione dell'Unione Sovietica, non possono esserne spiegati. Ma di ciò, eventualmente, un'altra volta.

La giornata romana degli economisti

«Rive Gauche. Critica della politica economica» è il titolo del volume curato da Sergio Cesaratto e Riccardo Realfonzo (manifestolibri, pp. 262, €euro 24), che raccoglie gli atti del convegno promosso da questo giornale il 30 settembre 2005 su «La critica della politica economica e le linee programmatiche delle coalizioni progressiste». Molti degli economisti che hanno contribuito a quel convegno (e molti altri che ad esso invece non avevano preso parte) hanno poi sottoscritto l'appello per la stabilizzazione del debito pubblico, pubblicato da questo giornale nel luglio 2006 (adesso disponibile sul sito internet www.appellodeglieconomisti.com).

Individuare le matrici teoriche della «Rive Gauche» implica ovviamente un certo arbitrio ricostruttivo, specie per la ricchezza della tradizione marxista, neoricardiana e postkeynesiana nel nostro Paese: i meno giovani ricorderanno sicuramente l'aspro scontro che si ebbe nel 1978 a Pavia, in occasione del dibattito organizzato da Giorgio Lunghini su «Scelte politiche e teorie economiche in Italia» (poi confluito nell'omonimo volume curato dallo stesso Lunghini per Einaudi). Crediamo però di non discostarci troppo dal vero se le indichiamo negli approcci, entrambi alternativi al paradigma neoclassico, del sovrappiù e del circuito monetario. Storicamente legati ai nomi di Pierangelo Garegnani e Augusto Graziani e sviluppatisi indipendentemente l'uno dall'altro, essi sono stati recentemente oggetto di una proposta di integrazione da parte di Emiliano Brancaccio: si veda il suo «Un modello di teoria monetaria della produzione capitalistica», in «Il pensiero economico italiano», XIII, 1, 2005, pp. 91-122.

L'incontro che inizia martedì prossimo a Roma, presso il Centro Congressi Cavour (Via Cavour 50/A a partire dalle 9) prevede due sezioni («Impianto neo-liberista dell'Ue. Mezzogiorni e condizioni del lavoro», «Struttura economica italiana, lavoro, salario, precarietà») e una tavola rotonda su «Lavoro, precarietà, welfare: quali capisaldi di politica economica per l'unità a sinistra» (LC)

ARTICOLI CORRELATI
12 Luglio 2019

© 2024 Eddyburg