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Giancarlo Consonni
Oltre la composizione
20 Marzo 2004
Recensioni e segnalazioni
Giancarlo Consonni recensisce il volume: Lodovico Meneghetti, Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, Milano 2000

Uno sguardo distante da sé e vicino alle cose

Un libro come questo non poteva che giungere a conclusione di un luminoso magistero, nel quale - prima presso la Facoltà di Architettura di Milano e poi di Milano-Bovisa - per 35 anni senza risparmio di energie Lodovico Meneghetti ha trasmesso ai giovani la sua vasta cultura assieme ai segreti del mestiere di architetto acquisiti in un’intensa pratica ‘artigianale’. La tensione civile e l’affabulazione pedagogica sono le stesse, ma filtrate da un bilancio.

Il volume ha una forma insolita e accattivante. Si misura con l'arte del costruire, ma non è né un trattato né un manuale. Ricollega in una sorta di romanzo di formazione memorie di viaggio vividamente custodite: inscena l’accostarsi paziente e ripetuto all’architettura. Allo stesso tempo fuoriesce dal dato autobiografico per dare vita a un discorso sull’arte del costruire che vuole essere anche un ponte fra le generazioni.

Duca è il Simon Schama di Paesaggio e memoria, ma ideali compagni d’avventura sono anche il viandante schubertiano del Viaggio d’inverno e il «lavorante girovago» mahleriano. Riferimenti espliciti e tutt’altro che estemporanei. Lo attesta la capacità di Meneghetti di patire le cose e la libertà con cui compie il suo viaggio nei viaggi.

Per non dire della stessa struttura musicale del libro. Tre temi, tre capitoli: Albero, Flusso, Terra. Quindi Intermezzo - il capitolo fulcro che ha per protagonista proprio il rapporto architettura/musica - seguito da Viaggio in un senso, ripresa sinfonica dei temi musicali enunciati nei primi tre capitoli. E, a chiusura, il gran finale: Ragione e sentimenoi nell'architettura e paesaggio dei Maestri.

È l’ordito di un’opera aperta concepita per un’«educazione sentimentale» all’architettura. I molti inserti narrativi istaurano una situazione conviviale, rafforzata e resa non convenzionale dalla scelta dell’autore di mettersi in gioco con precisi giudizi e commenti.

Il modo è inusuale. Nell’insegnamento accademico e nel lavoro critico è difficile vedere affrontati temi e questioni come quelli relativi al gusto, all’identità dei luoghi e alla civiltà che si esprime nelle opere. La critica è sempre più appiattita sulle logiche massmediatiche: l’abbagliante luce delle star mette fuori discussione l’opera. L'accademia si dibatte in una sorta di schizofrenia: oscilla tra l’indicazione di ingessati modelli stilistici e il riferimento quasi esclusivo alla «tipologia edilizia». In diverse scuole, negli ultimi tre decenni, il «tipo» è diventato una sorta di buco nero che molto ha assorbito del discorso sull’architettura. Con fraintendimenti disorientanti sul piano scientifico e formativo: troppo spesso il discorso sul tipo tralascia di distinguere quando il termine sta a indicare l’esito di una classificazione, quando è il riconoscimento di un organismo prodotto da processi storico-sociali, quando vuole essere l’indicazione di una regola ordinatrice dei tessuti urbani; o quando, ancora, in continuità con l’etimo greco, sta per impronta, inizio, matrice.

Lontano da queste secche, Meneghetti riporta l’architettura all’esperienza diretta, tanto che con Cézanne potrebbe affermare: «le sensazioni formano il fondamento del mio lavoro». Allo stesso tempo, è ben consapevole come, per colmare la distanza che intercorre tra le sensazioni e il senso, si renda necessaria «un’organizzazione dell’esperienza» (p. 64). Mentre è attento alla singolarità e alla irriducibile unicità del luogo, attraverso una meditata scelta degli esempi intreccia un discorso a tutto campo sul rapporto architettura/paesaggio e sulle sue manifestazioni paradigmatiche.

Ma l’affiorare di un ordito teorico nella trattazione non toglie mai all’architettura il suo carattere di concreto fatto materiale. In questo Meneghetti è in sintonia con quanto acutamente osservava Romano Guardini nel 1926: «L’uomo vuole liberarsi di questa unicità perpetuamente ripetuta, di fronte alla quale egli a lungo andare dovrebbe soccombere, per arrivare a un insieme, a un atteggiamento valevole per molti, possibilmente per tutti i casi ed essere così in grado di dominare interamente la realtà che l’attornia. Per ottenere questo egli si sottrae al colloquio che lo metteva direttamente faccia a faccia con la cosa, esce dalla condizione immediata, in cui egli alternativamente era colui che afferra e colui che è afferrato; se ne sottrae per porsi da un punto di vista situato ad di fuori dei questa comunanza tra l’Io e le cose».[1]

La rottura di questa comunanza contraddistingue l’Occidente moderno.

È stato osservato come l’invenzione quattrocentesca della finestra quale cornice/soglia che inquadra la veduta prospettica coincida con «la scoperta del paesaggio occidentale. Infatti la finestra è quel riquadro che trasforma il paese in paesaggio, isolandolo, incastonandolo nel quadro» [2]. Con questa invenzione la pittura segnala l’avvio di un passaggio epocale: il distacco dell’individuo dal corpo del mondo come condizione di un nuovo dominio. Il processo è lento e travagliato. Dovranno passare due secoli perché il delinearsi della prospettiva di «ridurre la natura in ceppi» propugnata da Francis Bacon e la separazione cartesiana di corpo e anima riferita anche al mondo materiale segnino l’avvio della tappa successiva: la marcia trionfale della rivoluzione industriale e della secolarizzazione.

Spetterà quindi a Kafka e a Beckett illuminarci sull’ulteriore passaggio che ci vede oggi attori passivi: lo spaesamento fino alle intraviste, estreme conseguenze: l’esilio dell’uomo dal mondo.

Architettura e paesaggio non si adagia su questa linea di forza che sembra vincente e tantomeno cade nella tentazione di farsene mosca cocchiera (come invece si può riscontrare in diversi documenti programmatici del Movimento Moderno e oggi in mostre che si accontentano di uno sguardo autocompiaciuto delle proprie definizioni formalistiche, le quali finiscono di fatto per celebrare il day after dell’urbanità e della cura dei luoghi [3]). Anzi.

Così come con l’architettura neo-liberty - di cui è stato protagonista con Vittorio Gregotti e Giotto Stoppino - Meneghetti guardava fra gli altri a William Morris, allo stesso modo il libro è costruito in polemica controtendenza. Per lui il paesaggio non esclude il paese, ovvero il luogo assunto nella sua totalità, nelle sue valenze di senso e nella sua abitabilità. Tanto che a epigrafe del volume si potrebbe porre quest’altro passo delle Lettere dal lago di Como: «Qui, in questi luoghi, mi sento personalmente interpellato da ogni parte […]. Qui si ergono davanti a me forme, direi, quasi in carne ed ossa; mi trovo a vivere in mezzo ad esse e con esse ho contatti viventi. Mobili, case, strade, città sono altrettante personalità» [4].

Si tratta dunque di una presa di contatto totale e insieme sorvegliata. Come nel famoso dipinto Il viandante sul mare di nebbia (c. 1818) di Caspar David Friedrich, l’autore è il viandante colto di spalle mentre afferra ed è afferrato dal paesaggio: si osserva nelle proprie sensazioni e reazioni come essere «gettato nel mondo» (Merleau-Ponty). Un esempio: «Quando varcammo la soglia della più grande moschea del mondo, dopo la Caabah della Mecca, la celebre Medjid al Djamía di Cordova, bastò poco per sentirsi come presi al petto dall'emozione che la foresta di colonne fittamente collegate da doppi archi cagionava. Se si può affermare di aver provato sensazioni al di là di quella visiva, cioè effetti mentali prodotti dalla stimolazione del corpo dovuti, forse in maniera distinta dalla percezione, alla visione di un paesaggio architettonico, lì, nella mezquita, aggirandoci in uno spazio così agevole, abitabile grazie alla sua etica umanità, se ne provarono le più profonde» (p. 22).

Qui, come in altre rievocazioni di visite a luoghi notevoli, l’uso del passato remoto - e più raramente del presente storico - rimarca la solennità dell’evento: il ricordo è consegnato a un per sempre, e come tale è restituito con incisività e immediatezza. Il sentire è a 360 gradi: tutti i sensi sono mobilitati e così le fondamentali sinestesie: l’ordito musicale di ciò che si offre alla vista, la tattilità della materia osservata. Le costruzioni e i paesaggi sono osservati, ascoltati, toccati con gli occhi e con le mani e il tutto è riportato come se accadesse in quel momento, con lo scrivente e il lettore immersi nello stesso flusso di sensazioni ed emozioni. A ciò si accompagnano precise annotazioni orientative sui caratteri geomorfologici e naturalistici del contesto e sulle matrici e le valenze di senso delle opere che mettono in condizione chi legge di esercitare un proprio giudizio critico.

Mimesi, contrappunto, sintonia, dono: le forme dell’armonia fra architettura e natura

La capacità di muoversi su una tastiera temporale molto ampia - tra testimonianze antichissime e opere di maestri contemporanei - concorre a distinguere ulteriormente Architettura e paesaggio nel panorama disciplinare.

Rispetto ad altri suoi scritti, qui Meneghetti sembra lasciare sullo sfondo le vicende urbane come se volesse andare alle radici stesse del costruire. Lo interessa il rapporto diretto con la natura e il cosmo: la capacità dell’architettura di dare vita a una bellezza le cui prerogative già Gogol’ nelle Anime morte (1842) aveva colto perfettamente: «quella bellezza che non sanno creare né la natura né l’arte, e che si ottengono soltanto quando queste si riuniscono insieme […]».

A ben guardare è la bellezza sublime la luce attorno a cui ruotano le pagine di questo libro. Lo conferma la stessa preferenza data a quei contesti - il deserto, il mare, i fiumi, le montagne, le gole, le rupi, i crateri - in cui la natura si mostra in una sua forza geologica originaria e insieme costituita di «materie reali e mentali, principi vitali e morali»[5]. Così come è significativo che venga quasi del tutto trascurata la bellezza ‘ordinaria’ del giardino e dei parchi, e in generale le situazioni in cui l’architettura si applica direttamente agli elementi naturali in una sorta di addomesticamento che l’autore sente come artificioso.

Nel contempo l’interesse maggiore sembra andare a quelle architetture che hanno saputo sussumere o comunque dialogare con i principi vitali e morali intravisti dall’autore nella natura primigenia. L’architettura megalitica lo affascina per come sa catturare e restituire la primordialità geologica; Castel del Monte lo attrae nella sua potenza di gigantesco cristallo; i grandi monumenti dell’antichità egiziana, greca e romana lo interessano per la capacità di organizzare e portare ad espressione le energie ancestrali dei luoghi. E la narrazione trascorre con naturalezza da Carnac a Mies van der Rohe, dalla grecità ad Alvar Aalto con collegamenti espliciti e impliciti, inaccettabili per molti storici dell'architettura, ma importanti per chi l'architettura la fa e ne sa cogliere matrici e potenzialità di senso. All’autore interessa capire come questi e altri grandi maestri della contemporaneità - Gaudí, Le Corbusier, Wright - abbiano saputo rinnovare il dialogo con il fascino e il mistero della creazione.

Nell’andare alla ricerca del legame che nella costruzione si instaura fra ragione, misura, etica e bellezza sublime, Meneghetti si mostra immune da semplificazioni, convinto com’è che non ci sia una regola assoluta (p. 66). In primo luogo, suggerisce, bisogna imparare a riconoscere la bellezza e a goderne: questa è la condizione per poterne parlare. Qui emerge una delle valenze civili del libro: quella didattica. Le narrazioni sui luoghi-teatro dell’incontro di architettura e natura in cui il viandante è catturato dal mistero hanno anche il sapore di esercizi in tema di gusto: un mettersi alla prova come in un dialogo interiore che è insieme socraticamente aperto, volto a sollecitazioni maieutiche verso il lettore.

L’invito non cade nel vuoto anche perché chiare ed essenziali sono le chiavi di ingresso.

Il tema dell’incontro di architettura e natura è affrontato assumendo a riferimento l’esemplare lavoro creativo che dal 1908 al 1921 Mondrian compie sulla forma dell’albero: il suo evolvere - per usare espressioni di van Doesburg - dalla forma «mutuata dalla natura» alla «pura impressione plastica». Anche alla luce di questo percorso, Meneghetti rimarca come il rapporto architettura/natura si possa nutrire di due modalità essenziali: da un lato i passaggi intermedi del percorso di Mondrian: l’imitazione e la contaminazione; dall’altra il porsi vis-à-vis del primo e dell’ultimo dei passaggi, ovvero il contrappunto natura/artificio all’insegna del contrasto ma anche della complementarietà, (come la Fontana dei quattro fiumi del Bernini e la Fontana di Trevi di Nicola Salvi teatralizzano nello stesso artificio).

Tra le esemplificazioni di un’armonia ottenuta per continuità mimetica spiccano nella trattazione esempi antichi, come i Metéora monasteria della Tessaglia, ma anche moderni: il Gaudí del parco Guell (e non solo), il Le Corbusier della cappella di Ronchamp. Quanto al contrappunto si spazia da esempi di case d’abitazione - la ville Savoye di Le Corbusier, la casa Farnsworth di Mies van der Rohe, la Glass House di Philip Johnson - ai ponti in ferro di Eiffel e Rothlisberger.

Ma nel reciproco cercarsi delle polarità della natura ‘naturale’ e dell’artificio si danno anche declinazioni che partecipano di entrambi i modi. È il caso di molte architetture della classicità greca, ma anche di alcune opere di Frank Lloyd Wright e di Alvar Aalto. Dove il principio vitale operante nei fatti naturali trova un’eco che informa nell’intimo l’organismo architettonico, stabilendo più profonde sintonie.

Di fronte alla forza emozionale di queste e di altre architetture sublimi, Meneghetti può mostrare come il rapporto artificio/natura superi i termini stessi della «composizione» per assumere quelli di una relazione di dono: architettura e paesaggio (a forte dominanza ‘naturale’) si donano l’una all’altro, divenendone il compimento reciproco. Quando si dà questa condizione - si vedano le pagine su Pont du Gard, Petra, Stonehenge, Segesta, Capo Soúnion, Delphí, Epidauro e altre ancora - allora la presenza umana è a sua volta invitata a comportarsi come se le fosse richiesto di cooperare al compiersi del dono: di divenire l’anello che chiude un rapporto cosmico. Se nella narrazione del sopralluogo a Delphí ciò è esplicitamente indicato - «Noi stessi ci sentiamo legame» (p.86) -, in molti altri passaggi di Architettura e paesaggio assistiamo a manifestazioni di quella che Jean Starobinski ha chiamato la «contemplazione espansiva»[6].

Libertà vs Babele

Dei maestri della modernità a Meneghetti interessa soprattutto la lezione di libertà: la capacità di dare corpo e anima alle cose mentre si porta a espressione compiuta la personalità dei luoghi. L’opposto sia dell’imposizione atopica di stilemi bloccati sia della pseudo-libertà del solipsismo che devasta i paesaggi. Il senso ultimo del viaggio è ricercare le manifestazioni di una libertà intesa alla Romagnosi: la «libertà del comune sentire», del reciproco riconoscersi nella comune umanità. È questa l’altra valenza civile del libro.

Nel mettere in campo oltre mezzo secolo di ‘pellegrinaggi’ il cui elenco è già di per sé un racconto[7], Architettura e paesaggio si presta anche a fare da testimone di un mutamento epocale. Si aprono qua e là pagine di dolorosa presa d’atto di devastazioni e collassi che hanno colpito paesaggi che solo qualche decennio fa potevano dirsi mirabili.

Meneghetti sa bene come sia delicato il rapporto architettura-luogo e come il degrado dei contesti porti con sé una sottrazione di valenze di senso allo stesso manufatto architettonico. Si veda la bella lezione di architettura urbana sul Seagram Building osservato una prima volta appena costruito e una seconda nel 1980, con la registrazione di una delusione: «Grattacieli affastellati, talune penose imitazioni del capolavoro (con quel disegno del completamento in alto del volume diventato una mania più che una maniera), avevano non solo abolito la prospettiva storica lungo la Park Avenue, ma anche il significato, se non il fatto della piazzetta. Il Seagram sembrava corrucciato, ritrattosi da tanta bruttura. E, peggio del peggio, era sparito il cielo sopra il neogotico grattacielo e la retrostante Central Station. Tutto si confondeva ora con l'enorme massa del Pan Am (oggi Met-Life) Building, costruito assurdamente “sopra” la stazione, opera la cui consulenza dell'ottantenne Walter Gropius ho sempre ritenuto spuria» (p. 95).

La rottura epocale tra l’allora e l’oggi è motivo centrale del libro. L’autore si fa testimone della devastazione che si è consumata negli ultimi trenta-quarant’anni. I paesaggi-teatro segnati dalla presenza di monumenti della classicità greca e romana visitati nei primi anni del dopoguerra erano in fondo meno lontani da quelli del Grand Tour di quanto lo siano da quelli di oggi.

Sul paesaggio contemporaneo si è da tempo aperta una polemica tra chi vede nella gran parte delle trasformazioni un regresso della civiltà del costruire e chi sostiene sia soprattutto una questione di ‘sguardo’: che si ponga preliminarmente la necessità di ridefinire i criteri di descrizione e valutazione. È un dialogo quasi impossibile perché condotto su livelli che non si incontrano. Su questo Meneghetti sembra non avere dubbi: attrezzarsi per riconoscere le nuove regole che sottostanno al caos reale o apparente è certo necessario, ma questo non può impedire di cogliere la caduta di una tensione all’unità dialettica fra architettura e paesaggio che si è consumata in questi anni.

C’è poi chi ormai coltiva lo spaesamento degli oggetti architettonici indicandolo come l’unico modo ‘attuale’ di interpretare la condizione metropolitana. È in fondo una giustificazione a posteriori di un processo in cui si manifesta sia il narcisismo esasperato che dagli individui si trasferisce agli oggetti sia un’inquietudine: l’aspirazione a far irrompere l’altrove nella finitezza dei luoghi.

Ma anche in questo caso si tratta di un equivoco: la grande architettura che fonda il luogo è strumento di identità e radicamento e insieme capace di una evocazione di senso tanto ricca che in essa trova spazio anche l’altrove.

[1] Romano Guardini, Briefe vom Comer See, Grünewald, Mainz 1953 (1926), trad. it Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo, Morcelliana, Brescia 1993, pp. 26-27. Sottolineatura mia.

[2] Alain Roger, Il paesaggio occidentale, in «Lettera internazionale», a. VII, n. 30, ottobre-dicembre 1991, p. 39.

[3] Il riferimento è alle mostre Mutations (Bordeaux 2000-2001) e USE Dentro la città europea (Milano 2002).

[4] Guardini, cit., p. 25.

[5] L’espressione è usata in particolare per «le foreste i fiumi le montagne» (p. 15).

[6] Jean Starobinski, Tra Proust e Ruysdael, in «Lettera Internazionale», cit., p. 37.

[7] Lo riporto per comodità del lettore: Un parco di sequoie, il Parque Güell di Gaudí a Barcellona, la mezquita di Cordoba dalle 514 colonne, la Fountains Abbey nello Yorkshire, le fontana dei Fiumi in piazza Navona di Gian Lorenzo Bernini, la fontana di Trevi di Nicola Salvi, il palazzo di Vaux-le-Vicomte, il Bol’soj Dvorec di Petrodvorec con la sua Gran Cascata, il Pont du Gard, il trecentesco Ponte delle Torri a Spoleto di Matteo di Giovanello, il cinquecentesco ponte turco sulla Neretva a Mostar, il ponte di Paderno sull’Adda dell’ingegnere Giulio Rothlisberger, il ponte sul Tarn in Lozière (Francia) di Gustav Eiffel, e sempre di Eiffel il ponte Maria Pia sul Douro (Portogallo) e il Viaduc de Garabit sulla Truyère nel Cantal (Francia), il tempio rupestre di Ramesses II ad Abu Simbel, il tempio di Iside nell’Isola di Philae, il Mount Rushmore Memorial dello scultore Gutzon Borglum, i metéora monasteria della Tessaglia, il Sacro Monte di Varallo, il Santuario di Santa Caterina del Sasso sul lago Maggiore, il Monte Bianco, il Resegone, l’Acropoli di Atene, il tempio di Giove Anxur sul Monte Sant’Angelo a Terracina, il Castel del Monte nei pressi di Andria in Puglia, Castel Lagopesole in Basilicata, Notre Dame du Haut a Ronchamp di Le Corbusier, la Wilhelmshöe a Kassel in Assia, il bolognese portico di San Luca, il portico di Monte Bèrico a Vicenza, il Monte Stella a Milano di Piero Bottoni, la gravina tufacea di Massafra in Basilicata, i Sassi di Matera, les Beaux de Provence, Petra, le ricostruzioni di Arthur Evans a Cnosso, la Sainte Madeleine di Vezelay “ripristinata” in facciata da Viollet-le-Duc, gli allineamenti di Ménec, Kremario e Kerlescan a Carnac, Stonehenge, Paestum, Segesta, Selinunte, la Valle dei Templi di Agrigento, capo Soúnion, il tempio di Aphéa nell’isola di Egina, il convento di Sainte Marie de la Tourette a Éveux-sur-l’Arbresle di Le Corbusier, Delphí, Olympia, Epidauro, la Ville Savoye a Poissy di Le Corbusier, la Maison Carré di Alvar Aalto a Bazoches a sud di Parigi, il monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg a Berlino di Mies van der Rohe, e sempre di Mies il Seagram Building a New York e la casa Farnsworth a Plano (Illinois), la Glass House a New Canaan (Connecticut) e il Lincoln Center di New York di Philip Johnson, e, infine, un intenso pellegrinaggio fra le opere di Frank Lloyd Wright e di Alvar Aalto.

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