«Era una comunità isolata, con un campo da golf, dieci da tennis, un centro di ritrovo e circa duecentocinquanta case, ognuna con un acro e mezzo di terreno intorno e ognuna rigorosamente rispettosa dei patti (...). Se uno voleva dipingere la casa di celeste o di rosa provenzale con imposte verde lime, era liberissimo di trasferirsi nella San Fernando Valley o a Santa Monica o in qualsiasi altro luogo di sua scelta, ma se acquistava una quota dell'Arroyo Blanco Estates, la casa doveva essere bianca e il tetto arancione». Così T. Coraghessan Boyle tratteggia la claustrofobica gated community californiana che fa da scenario al suo straordinario romanzo América.
La proliferazione nelle metropoli contemporanee di comunità cintate in cui le classi medio-alte trovano rifugio dalle crescenti fobie urbane legate alla criminalità, al degrado o anche solo alla presenza di «altri indesiderabili» - mendicanti, lavavetri, poveri, immigrati, minoranze etniche - a loro volta sempre più confinati in ghetti e no go areas, è da tempo al centro del dibattito sociologico sulla città e le sue trasformazioni.
A questo dibattito - e soprattutto a una sua auspicabile diffusione al di là della cerchia ristretta degli specialisti - l'ultimo lavoro di Agostino Petrillo Villaggi, città, megalopoli (Carocci, pp. 149, euro 13,60) offre un importante contributo. La constatazione da cui prende le mosse il saggio di Petrillo è apparentemente semplice: viviamo in un mondo sempre più urbanizzato e la dimensione metropolitana costituisce uno snodo fondamentale dell'esperienza contemporanea - dei ricchi come dei poveri, degli integrati come dei marginali.
Ma se la progressiva urbanizzazione del mondo (o quanto meno del suo versante occidentale) rappresentava già per la sociologia classica una tendenza irreversibile e in certa misura auspicabile in base a una visione lineare del progresso umano che esaltava la dimensione urbana per la sua capacità di travolgere strutture sociali arretrate e tradizionali, le profonde trasformazioni globali degli ultimi decenni - dalla crisi della società industriale alle migrazioni, dall'avvento della new economy al consolidamento di nuove povertà, dall'inquinamento del pianeta alla crisi energetica - svelano i risvolti inquietanti e perfino distopici di quella tendenza. Infatti, diversamente da quanto i sociologi della città avevano immaginato almeno fino alla metà del XX secolo, protagoniste di una crescita esponenziale e di un'espansione demografica ingovernabile sono quasi esclusivamente le città del «terzo mondo».
Qui si determina secondo Petrillo una drastica rottura del nesso storico tra urbanizzazione e sviluppo: non più scenario di nuove opportunità né orizzonte di una possibile emancipazione da vincoli economici e culturali tradizionali, le nuove megalopoli del Sud del mondo si presentano al contrario come enormi bacini di raccolta di una povertà globale in espansione. Se da una parte le metropoli occidentali si possono descrivere come altrettante città globali, nodi strategici di un'economia delle reti sempre più legata ai flussi di conoscenza e a una logica dell'immateriale che comprime ogni distanza spazio-temporale, dall'altra le sterminate bidonvilles delle «mega-città» africane, latino-americane e asiatiche - Lagos, Città del Messico, Dhaka, Bombay per citarne solo alcune - illustrano plasticamente gli effetti di impoverimento radicale e di territorializzazione forzata che l'economia globale impone alle aree più depresse del pianeta.
Baraccopoli, favelas, slums, banlieues. In quesi non-luoghi popolati da quelle che con Bauman si possono definire «vite scarto», si consuma l'esperienza quotidiana di una marginalità estrema (dall'assenza di acqua a quella di servizi, dalla privazione di ogni assistenza sanitaria all'impossibilità di accedere a livelli minimi di istruzione) che però non coincide affatto con l'esclusione economica, dal momento che - come rileva Petrillo - i nuovi poveri delle metropoli sono in misura crescente poveri laboriosi, cioè inclusi in posizione subordinata nelle nicchie più svantaggiate dell'economia post-industriale: «I poveri non sono parassiti della grande città, spesso sono loro a svolgere la maggior parte del lavoro manuale, anche se attraverso i circuiti del lavoro nero e dell'economia informale. Si pensi alle città del Sud-Est asiatico che sarebbero paralizzate senza i loro tassisti abusivi e i loro risciò».
A questo punto è però necessario sottolineare che l'autore di Villaggi, città, megalopoli non concede alcun margine a rappresentazioni dualistiche o polarizzate della metropoli contemporanea - tali cioè da enfatizzare eccessivamente le distanze tra primo e terzo mondo, centri e periferie globali: al contrario, un solido filo conduttore lega lo sviluppo delle città globali a quello delle mega-città terzomondiali, e questo consiste nella progressiva destrutturazione della città come spazio pubblico, come territorio che rende accessibile l'esperienza dell'altro da sé.
Torniamo quindi alle prime battute di questa recensione, per dire con Petrillo che tanto le città globali quanto le metropoli del sud del mondo delineano una struttura urbana articolata su un'alternanza tra zone di segregazione - ghetti, periferie, no go areas - e zone di auto-segregazione - gated communities, parchi a tema, shopping malls - che neutralizza ogni dimensione partecipata e condivisa della città.
Le diverse umanità che popolano questi luoghi della separazione e del distanziamento non hanno modo di incontrarsi se non clandestinamente, attraverso gli scambi sotterranei che legano le economie legali a quelle sommerse: mercato della droga, prostituzione, lavoro nero, nuove schiavitù.
In ultima analisi, l'«urbanistica revanchista» (l'espressione è di Petrillo) che connota le metropoli contemporanee sembra proiettare e moltiplicare all'interno del tessuto urbano gli stessi confini materiali e simbolici che la globalizzazione pone in discussione al suo esterno: nella città planetaria che si va formando, la funzione principale di quei confini sarà allora quella di approfondire la distanza che separa i «cittadini» da coloro che semplicemente «abitano».
Temi paralleli a quelli toccati da MIke Davis nel suo Planet of Slums ;per la città terzomondiale in trasformazione si vedano anche gli articoli di Tavleen Singh sul caso indiano, di Jianhu Feng per il sottoproletariato urbano cinese, e molti altri (f.b.)