Diritti civili e dignità della persona umana, progressi compiuti di ieri e doveri e speranze per domani: così parla uno statista. Altrove.
Il Fatto quotidiano, 20 agosto 2013
Il discorso di Obama era particolarmente atteso. Pur essendo il primo presidente nero della storia Usa, Obama non ha mai parlato volentieri della questione della “race”. In sole due occasioni il presidente si è lasciato andare. La prima volta è stata nel 2008, quando l’allora candidato alla Casa Bianca rispose alle polemiche sulla sua appartenenza alla chiesa del reverendo Jeremiah Wright. L’altra occasione è arrivata il mese scorso, dopo la sentenza che ha sollevato da ogni accusa l’assassino di Trayvon Martin. “Ci sono pochi afro-americani in questo Paese, me compreso, che non sono stati seguiti dai commessi mentre facevano shopping in un grande magazzino”, ha detto Obama per riassumere il senso di frustrazione di molti neri.
Per il resto, il presidente ha sempre preferito collocare la battaglia per i diritti dei neri in un contesto generale, che comprende tutti i gruppi che in qualche modo soffrono di discriminazioni: i neri, ma anche gli ispanici, gli omosessuali, le donne. “Il mio lavoro, come presidente, è quello di favorire politiche che creino opportunità per tutti”, ha spiegato lo scorso maggio ai laureandi del Morehouse College, dove si diplomò Martin Luther King. L’apparente distacco di Obama ha tra l’altro generato particolare delusione, in certi casi anche manifesta insofferenza, proprio nella leadership politica afro-americana, che ha accusato Obama, cresciuto alle Hawaii e in Indonesia, di non sentire davvero un senso di vicinanza ideale con leader come Martin Luther King, e di essere troppo prudente sulle questioni della discriminazione razziale. “E’ il presidente di tutti gli americani, non soltanto di un gruppo”, ha detto la sua amica e consulente alla Casa Bianca, Valerie Jarrett. Ma intanto, in questi anni, la delusione di molti neri d’America è cresciuta nei confronti di un presidente nel quale avevano riposto enormi speranze. Oggi soltanto il 25 per cento degli afro-americani pensa che la sua vita sia cambiata in meglio con l’elezione di Obama.
Dal Lincoln Memorial, cinquant’anni dopo Martin Luther King, Obama ha dunque parlato soprattutto a questa America, prima entusiasta, poi perplessa e delusa dal proprio presidente. Ha riconosciuto i meriti della generazione che lo ha preceduto nella lotta per l’eguaglianza – “E’ perché hanno marciato”, ha declamato più volte, con un tono che ha ricordato quello del reverendo King – ma ha anche ricordato che la battaglia per l’eguaglianza non è completa e che “l’arco dell’universo morale può piegarsi verso la giustizia, ma non si piega da solo”. Cercando di inquadrare il problema afro-americano nel quadro più vasto della recessione economica, Obama ha poi ricordato che l’obiettivo della marcia del 1963, oltre alla tolleranza razziale, era “quello dell’eguaglianza economica”. E da questo punto di vista, 50 anni dopo, i risultati non sono confortanti. La disoccupazione tra i neri è al 12,6 per cento, il doppio di quella degli americani bianchi. Il reddito medio di una famiglia nera è circa il 60 per cento di quello di una famiglia bianca – e la differenza di reddito è aumentata dal 2009. Circa un nero su tre vive sotto il livello di povertà.
Obama ha detto di aver chiesto al Congresso maggiori fondi per le infrastrutture, l’educazione, la ricerca, “per colmare le differenze di reddito” e ha spiegato, per far rivivere la sua agenda di riforme in gran parte bloccata al Congresso, che gli Stati Uniti si trovano oggi di fronte, proprio come nel 1963, a una scelta storica tra stallo e progresso: “Possiamo continuare per la strada attuale, in cui la nostra grande democrazia è frenata e i nostri figli devono accettare un’esistenza di minori aspettative – ha detto Obama -. O possiamo avere il coraggio di cambiare. E la Marcia su Washington ci insegna che non siamo intrappolati negli errori della Storia, e che siamo noi stessi i padroni del nostro destino. Ma la promessa di questa nazione può essere mantenuta soltanto quando lavoriamo insieme”. Un altro passaggio che è sembrato un riferimento esplicito all’opposizione decisa che l’agenda interna di Obama incontra al Congresso ad opera dei repubblicani.
La celebrazione dei cinquant’anni dal discorso di Martin Luther King è arrivata in un momento particolare per i neri d’America. Oltre all’esito del processo per l’assassinio di Trayvon Martin, a turbare e alimentare la sensazione di un Paese in cui la giustizia non è ancora uguale per tutti è arrivata anche la sentenza della Corte Suprema che ha cancellato una parte importante del Voting Rights Act – quella che garantiva la partecipazione elettorale di minoranze e giovani . Proprio a questa sentenza hanno fatto riferimento i due ex-presidenti, Jimmy Carter e Bill Clinton – particolarmente duro è stato proprio Clinton, che ha detto che “una grande democrazia non rende più difficile votare che comprare una pistola”. Della decisione della Corte Suprema ha parlato anche Obama, in un passaggio di particolare durezza per un presidente di solito prudente. La sentenza, ha detto Obama, mostra che “per garantire i successi che il Paese ha raggiunto ci vuole continua vigilanza e non compiacenza”.
Il senso della giornata è stato comunque riassunto da uno dei primi oratori, John Lewis, il deputato oggi 73enne che è l’unico ancora vivente tra quelli che parlarono nella Marcia del 1963. Allora, Lewis intervenne a nome dello “Student Nonviolent Coordinating Committee”. Oggi è uno degli ultimi e più rispettati esponenti del movimento per i diritti civili. “Abbiamo fatto tanta strada in questo Paese negli ultimi 50 anni – ha detto Lewis – ma abbiamo tanta strada ancora da fare prima di realizzare il sogno di Martin Luther King”.