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Nuovi porticcioli turistici in Liguria
30 Novembre 2008
Liguria
Quando l’offerta (di territorio) si adegua alla domanda (di affari) il Belpaese piange e gli immobiliaristi ridono. Tre articoli dell’edizione genovese de la Repubblica del 25 aprile 2006 informano e preoccupano.

Sulla costa una colata di posti barca

di Ava Zunino

È in arrivo qualche migliaio di posti barca lungo la costa ligure, con relativi edifici per abitazioni, uffici e negozi, in qualche caso cantieri per la nautica e in altri anche alberghi e residence: sono quindici interventi, per lo più nell’imperiese e nel savonese ma anche nel genovese e uno solo a La Spezia, precisamente a Portovenere-Fezzano. In quasi tutti i casi, tranne eccezioni come Ventimiglia, sono ampliamenti di porti esistenti e sono progetti che risalgono indietro negli anni e solo adesso stanno arrivando a compimento. Come direbbero gli ambientalisti, sono alcune decine di migliaia di metri quadri di cemento.

«In questi casi collidono sempre due questioni: la salvaguardia della costa e la costruzione di volumetrie, ma nessuno vuole i porti-garage, ossia i depositi di barche che nella stagione invernale sono abbandonati e in estate sono comunque frequentati solo per arrivare alla barca e ripartire», spiega Carlo Ruggeri, l’ex sindaco di Savona che da un anno è l’assessore regionale all’urbanistica della giunta di Claudio Burlando e dunque si è trovato la quasi totalità di questi progetti sulla scrivania, con iter già perfezionati. Non tutte le partite però sono chiuse perché su cinque dei quindici progetti in questione, manca ancora l’istruttoria sul progetto definitivo. Sono i progetti del nuovo porto turistico di Ventimiglia, dedicato ai grandi yacht per sottrarre clientela a Montecarlo, quelli di Bordighera, di Diano Marina, Loano e Albissola-Savona. Su questi dunque le procedure devono ancora essere completate. Sono già aperti invece i cantieri a San Lorenzo al Mare, Alassio, Varazze, Arenzano, Sestri Ponente e Portovenere Fezzano.

In generale, l’assessore spiega che: «ognuno di questi interventi è compatibile con il piano della costa e i luoghi ritenuti idonei alla costruzione di un porto turistico, in genere, nel passato sono stati maltrattati sotto il profilo ambientale: usati come discariche o per interventi impropri». In ogni caso, la compatibilità con le previsioni del piano della costa non sono sufficienti ad ottenere l’autorizzazione ad ampliare un porticciolo esistente o a costruirne uno ex novo: «sui singoli progetti si fanno le verifiche ambientali, perché il piano della costa ha solo fatto una maglia che indica dove si può eventualmente fare un porticciolo; poi ci sono le successive verifiche ambientali».

In Liguria comunque, resteranno ben poche località senza un porticciolo: i dati dell’Ucina aggiornati ad ottobre del 2005 parlano di 51 porti esistenti. Adesso si aggiungono altri quindici progetti in itinere, di cui 9 sono ampliamenti dell’esistente.

«Ciononostante - spiega Ruggeri - non ci avviciniamo neppure all’enorme richiesta di approdi e rispetto ad altri paesi, anche molto vicini a noi, stiamo rispettando un buon equilibrio anche se non è facile mantenersi su una linea che eviti da un lato le cosiddette cementificazioni e dall’altro gli approdi autosufficienti che non hanno alcuna ricaduta sul territorio né in termini economici, né in termini vitali».

In questa logica di mixare le varie funzioni, dice l’assessore, la Regione sta preparando una modifica di legge sui porticcioli: «che preveda una speciale tutela per la parte che deve essere riservata ai pescatori». Questa sarà una novità, intanto Ruggeri spiega che al di là dei vincoli ambientali, vengono poste alcune condizioni.

«Chiediamo sempre un trattamento speciale per la cosiddetta nautica sociale, ossia i gozzi e le piccole imbarcazioni e quando è possibile anche per la cantieristica. L’obiettivo è di realizzare insediamenti vivi, che abbiano ricadute anche economiche lungo tutto l’arco dell’anno». E uno dei punti cardine su cui la Regione intende spingere è che in ogni porto turistico: «vengano lasciati rilevanti spazi per i transiti, per chi cioè non ha il posto barca ma è in vacanza e vuole fermarsi una o più notti, cosicché attraverso i porti possano arrivare in Liguria dei turisti in più, che visitano città e paesi».

Savona: Ground Zero nell’ex Italsider

di Luciano Angelini

«Sopra e sotto di me sono dirupi scoscesi. Mi trovo su un promontorio della costa, in un punto dove s’apre uno slargo, una terrazza sul mare; in alto, sui dirupi, ci sono delle muraglie molto alte, biancogrigie, tutto in giro un sistema di fortificazioni, mezzo inghiottite dalle piante che crescono tra i muri e sui pezzi di prato: agavi grigie che divaricano al sole la corona delle lance, qualche basso fico che espande la sua cupola d’ombra, contorcendosi fino a toccare terra con le foglie cariche di lattice. In basso, a picco sotto i muraglioni della fortezza, un cortile di fabbrica, dove vengono depositate delle sbarre di ferro, e un’alta struttura con un ponte e una cabina sollevabile, tutto in ferro. Al di là comincia il mare che occupa tutto il resto del campo visuale: alto d’orizzonte, con navi alla rada un po’ sfocate dalla foschia. In cielo volano i gabbiani».

Così, Italo Calvino, nel lontano 1974, nel suo «Ferro rosso, terra verde», scopriva Savona attraverso la sua storia, così raccontava l’immagine dell’Ilva (poi Italsider, poi Omsav fino alla chiusura) spaziando con lo sguardo dall’alto della fortezza del Priamar.

Quell’immagine ora non c’è più. Lo stabilimento, i cui embrioni risalgono al 1861, l’anno dell’Unità d’Italia, quando due imprenditori savoiardi, Giuseppe Tardy e Stefano Benech, costruirono una ferriera sulla spianata davanti alla torre di Sant’Erasmo, nell’area portuale, è affondato, scomparso. Schiacciato da un fallimento quasi tredici anni fa. E fino all’alba del 2006 rimasto come sospeso, come "sorvegliato" da un guardiano di antica pietra.

Ma ora non c’è più. Cancellato dalle ruspe. Spazzati via, ridotti in macerie, capannoni, officine, uffici, spogliatoi, sala mensa, infermeria. Tutto. Là dove c’era una fabbrica ora c’è il «ground zero» di 150 mila metri quadrati dell’industria savonese.

Al suo posto in 36 mesi nascerà un grande complesso turistico-residenziale «firmato» da Ricardo Bofill, l’architetto catalano a cui i «tre cavalieri bianchi» Orsero, Dellepiane e Campostano hanno affidato il compito di ridisegnare il fronte mare della città, la parte della città attorno alla Vecchia Darsena e accanto al Palacrociere che ogni anno ingoia e smista oltre 600 mila turisti delle navi con il fumaiolo giallo. Ma la definitiva scomparsa di una (importante) fetta della storia dell’industria savonese non può (e non deve) passare inosservata. Accettata in silenzio, come un episodio di nessun conto e significato. Da rimuovere.

Non si cancella così la memoria di una città. Come non ricordare che fino agli anni ‘50 nello storico stabilimento lavoravano oltre 4 mila persone; che sotto le ciminiere della mitica Ilva il movimento operaio e sindacale savonese ha scritto pagine importanti con le indimenticabili, aspre e dolorose battaglie per la difesa dell’occupazione. Tutta la città mobilitata (lavoratori, commercianti, la chiesa con alla testa il vescovo G. B. Parodi) per dire no, per ribellarsi al pesante taglio dell’occupazione. E poi il Natale in fabbrica, il «libretto della spesa» su cui venivano segnati gli acquisti delle famiglie ridotte sul lastrico, gli scioperi, le grandi manifestazioni. Donne e ragazzi in piazza accanto ai lavoratori in lotta, decisi a fronteggiare le cariche degli "scelbotti", capaci di sfidare, anche a rischio della vita, i caroselli delle camionette, e di dare un grande prova di compattezza, di solidarietà, di dignità. La lotta fu dura. Intensa. Ma non servì. Il piano Sinigallia per la siderurgia puntava allo sviluppo di Genova e Taranto, Savona veniva relegata ad un ruolo marginale. Fu l’inizio della fine. I tagli furono pesanti. Migliaia di famiglie finirono sul lastrico. Il contraccolpo sul piano economico, morale e sociale fu drammatico. Fu la prima di una lunga serie di ristrutturazioni, ridimensionamenti, soprattutto tagli.

Scelte calate dall’alto senza nuovi progetti e strategie di sviluppo, talvolta aggravate da una miope difesa dell’esistente. Tese a rinnegare, soffocare senza rinnovare la sua vocazione industriale. E a mutarne progressivamente il volto e a condizionarne il futuro. Ora, con l’avvio operativo del progetto di Orsa 2000, il cerchio si chiude. Là dove c’era lo stabilimento, si svilupperà una grande operazione immobiliare con due complessi residenziali di sette e cinque piani per complessivi 72 mila metri cubi.

Una cittadella di vetro e cemento firmata da Ricardo Bofill, prestigioso architetto catalano. Un progetto complessivo da 150 milioni di euro che andrà a completare e sancire l’alleanza dei tre "cavalieri bianchi": Raffaello Orsero, il "re della frutta" che dalla piana di Albenga ha esteso il suo regno a Porto Vado con il Reefer Terminal, ha in progetto un centro talasso-terapico sul fronte di Bergeggi, armatore e costruttore; Aldo Dellepiane, il self made man della Valbormida, leader dell’impiantistica industriale, i cui arredi fanno belle le navi di Costa Crociere, cantieri per cartiere e centrali in Polonia e Egitto, vincitore dell’appalto per la costruzione del nuovo ospedale di Albenga; Paolo Campostano, terminalista di punta a Savona e a Genova, leader nei traffici dei "prodotti della foresta", arrivato a conquistare le Funivie dei vecchi, cari carrelli che dalla stazione di Miramare portano il carbone in Valbormida.

Grandi alleanze. Grandi business. Grandi operazioni immobiliari. Sull’addio di Savona alla sua vocazione industriale si sono sviluppati, in tempi e con protagonisti diversi, gli interessi (di pochi) che sono sotto gli occhi di tutti. Ma non è finita. Ruspe e gru in azione anche nella vecchia centrale Enel (ex Cieli), splendido esempio di stile liberty e di archeologia industriale, tra l’Aurelia e la spiaggia.

Presto toccherà all’ex Squadra Rialzo, zona vecchia stazione Letimbro, a un tiro di fionda dal Palazzo di Giustizia. E, proprio nel cuore della città, all’ex ospedale San Paolo dopo quasi 15 anni di manovre, litigi tra Comune e Asl, contestate gare di vendita, senza dimenticare l’ex cinema Astor demolito a tempo di record all’imbocco del centro storico per fare posto ad un centro residenziale-direzionale, galleria commerciale e box. Savona è cambiata. Savona cambia. Torri e grandi complessi residenziali vista mare e vista porto. Appartamenti da 8-10 mila euro a metro quadro. Case, uffici, garage là dove c’erano fabbriche e cantieri, sale cinematografiche, orti e verde.

Savona cambia pelle. In cerca di una nuova vocazione. In attesa anche di un nuovo sindaco. Lo slogan che campeggia sui manifesti del candidato del centrosinistra, il commercialista ex bocconiano Federico Berruti, recita così: "Savona città delle idee". In attesa di un’idea per Savona.

La Spezia: Arsenale, addio mito ingombrante

di Costantino Malatto

A voler essere chiari: per molti spezzini è come quel vecchio parente che ti ha dato da mangiare per tanti anni. Ma che oggi che pensi di essere in grado di cavartela da solo ti dà più fastidio che altro, anche perché ti mette in un certo imbarazzo. E vorresti sbarazzartene. O almeno ridimensionarlo un bel po’. Ma come si fa alla Spezia a liberarsi dell’Arsenale della Marina Militare? La città praticamente è nata con quello, con la grande realizzazione militare nata da un’idea di Napoleone Bonaparte e dall’iniziativa del conte di Cavour. È l’Arsenale che ha portato lavoro, ricchezza, nome alla città.

Ma i tempi sono cambiati. Anche la Marina Militare deve fare i conti con la scarsità delle risorse e con i tagli del governo. È cambiata anche la linea strategico-militare: le navi militari giocano un ruolo sempre più importante nel sud Mediterraneo, cresce il ruolo dell’Arsenale di Taranto a scapito degli altri e La Spezia vede ridimensionato il suo ruolo. In parole povere: lo spazio occupato dall’Arsenale Militare alla Spezia - 85 ettari di superficie totale, 18 dei quali di superficie coperta, sei bacini di carenaggio in muratura e due galleggianti, oltre due chilometri e mezzo di banchine - non è più consono all’attività della struttura.

Molti spazi potrebbero essere liberati e destinati ad attività civili. Come si dice in questi casi: restituiti alla città. «È da cinque anni che chiediamo l’apertura di un tavolo di confronto - sbotta il sindaco della Spezia, Giorgio Pagano - ma il ministro della Difesa Antonio Martino non ci ha degnato di un cenno. Se non capiamo quali sono le intenzioni del governo e della Difesa diventa impossibile immaginare progetti per il futuro. Ora che cambia il governo speriamo di avere risposte positive e concrete».

Soprattutto se, come si sente dire sempre più spesso, a fare il sottosegretario alla Difesa andrà il senatore uscente Lorenzo Forcieri. Il politico che ha cercato di rilanciare il ruolo della Marina Militare alla Spezia, anche attraverso la nascita del Secondo distretto tecnologico ligure dedicato alle tecnologie marine, di cui l’Arsenale dovrebbe essere uno dei centri nodali. Infatti Forcieri non nasconde le sue convinzioni: «È necessario e urgente mettere intorno a un tavolo tutti i soggetti interessati, dal governo alla Marina Militare, dagli enti locali alle industrie - dice - per chiarire finalmente quali sono le intenzioni della Difesa e della Marina su questa struttura militare. E dunque quali sono le aree indispensabili per queste attività. Il passo successivo deve essere l’elaborazione di un piano economico-finanziario e l’attivazione degli accordi di programma con tutti gli interessati che possano definire con chiarezza i progetti».

Uno dei punti più delicati è quello della proprietà delle aree. Se la Marina Militare decidesse di dismettere un’area non più usata, questa passerebbe direttamente in proprietà del Demanio. E alla Marina non toccherebbe neppure un euro. Ora è ovvio che questa norma legislativa è vissuta come qualcosa di punitivo per la Marina, che per rilanciare l’attività della Base Navale, punto cardine dell’Arsenale, avrebbe bisogno di interventi strutturali e tecnologici. Costosissimi e non facilmente finanziabili in questi tempi di vacche magre. È naturale dunque che la Marina darebbe più facilmente un via libera alla dismissione di alcune aree se il valore di queste finisse almeno in parte alla Marina stessa. Da qui l’esigenza di una legge che riconoscesse alla Marina diritti economici sulle aree da dismettere.

Quanto poi a cosa realizzare su queste aree, il sindaco Pagano non ha dubbi: «Per le porzioni di territorio sulla linea di costa gli interventi turistico-portuali sono quelli più naturali - spiega - Per le aree all’interno gli usi possono essere diversi. Per esempio Marileva, dove avveniva il reclutamento dei marinai, potrebbe essere destinata in parte all’Università. Ci sono poi strutture per le quali niente impedisce di pensare a un uso condiviso, sia militare sia civile: per esempio l’ospedale militare o le strutture sportive. Insomma: le idee non mancano, ma bisogna cercare di metterle in pratica». Anche perché quel "vecchio parente" un tantino imbarazzante dà ancora occupazione, secondo i dati della Marina Militare, a 200 militari e a 1.900 tra impiegati e operai. «La ricchezza prodotta dall’Arsenale e dalle sue strutture - dice Forcieri - costituisce ancora una quota che si aggira sul 30% del prodotto interno lordo spezzino. Sarebbe un delitto sottovalutarne l’impatto per la tentazione di qualcuno di buttare via il bambino con l’acqua sporca».

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