Non va ogni giorno un po' meglio ma ogni giorno molto peggio. Peggiorano le cifre delle vittime, le previsioni delle epidemie, il bilancio dei danni materiali, le immagini dei cimiteri a cielo aperto, dei cadaveri nudi e gonfi rigettati dal mare, dei rossi falò crematori sullo sfondo nero della notte indiana. Logica mediatica del disastro invertita: di solito si fa fatica a «tenere alta» la notizia, dopo i primi giorni. Stavolta niente si abbassa, a partire dal nostro sgomento. Certo, è già tempo di ponderare ciò che poteva essere fatto e non lo è stato per arginare l'onda assassina; o di interrogarsi sulle conseguenze sociali, economiche, politiche e geopolitiche di una catastrofe destinata a cambiare il volto del pianeta globale e il corso della globalizzazione, nonché i suoi dividendi fra le potenze occidentali, la Cina, l'India. Ma non è ancora tempo di distogliere lo sguardo da quei centoventimila morti: uno per uno, storia per storia, caso per caso fin dove è possibile ricostruirli, senza permettere che la spietata contabilità delle cifre occulti la singolarità e la comune umanità di ogni vita travolta. Nude e disperse, esse ci guardano a loro volta come uno specchio muto e ci rinviano le nostre domande su di loro capovolgendole in questa: chi siamo diventati noi, i sopravvissuti?
Era solo quattro anni fa quando, in Occidente, festeggiammo l'avvento del 2000, nel disprezzo di altri calendari e altre culture, all'insegna dell'ottimismo tecnologico, della volontà di potenza sulla vita nostra e altrui, della fine della storia e della pacificazione dei conflitti nel trionfo acclarato della democrazia e del capitalismo. Da allora, come per risposta, la storia si è rimessa a girare secondo il caso, l'incidente e l'imprevisto, e l'immaginario apocalittico si è impadronito della nostra realtà quotidiana, dagli aerei-cyborg che perforano le Torri gemelle all'onda anomala che divora i paradisi tailandesi.
Non sembri blasfemo il paragone fra l'11 settembre 2001 e il 26 dicembre 2004. Certo, lì i morti furono tremila e qui non hanno fine; lì c'era un attentato politico e qui un accidente naturale; lì fu colpito il cuore del mondo ricco e qui un'arteria di un mondo povero che da poco aveva trovato il suo accesso a un benessere squilibrato e precario. Ma lì e qui, la catastrofe ha mostrato il suo volto ineluttabilmente globale. Lì e qui, nelle torri di Manhattan e sulle spiagge di Khao Lac, vittime di etnie, nazioni, culture le più diverse, mescolate in vita e non identificabili in morte, cadaveri nudi senza certificati né certificazione possibile. Lì e qui, la stessa percezione di noi spettatori sopravvissuti: il mondo globale si è fatto piccolo piccolo, più nulla che non ci riguardi e non ci tocchi, dovunque accada. E l'umanità globale si è fatta fragile, nuda vita esposta al caso e all'imprevisto, «politico» o «naturale» che sia.
La politica andava e va reinventata di conseguenza, dalle fondamenta: una politica della precarietà, della vulnerabilità, dell'esposizione al caso e dell'interdipendenza con l'altro, per un'antropologia globale fatta di vite precarie, esposte al caso e dipendenti dagli altri. Così poche e accorte voci, Judith Butler per prima, dall'interno della stessa società americana. Dai vertici della potenza americana, invece, è stata ribadita una politica di potenza e di guerra, all'insegna di quel delirante «we'll prevail» che oggi George W. Bush torna a impugnare anche contro lo tsunami. Nella sua ingiudicabile casualità e nella sua sconfinata energia, quell'onda anomala è venuta a ricordarci quant'è debole e insensata la nostra piccola e ritornante volontà di potenza.