Tra le fila dei manifestanti della Cgt a Parigi, Repubblica Tv, raccoglie la seguente parola d’ordine: «Che ci detestino pure, purché ci temano!» A prima vista può apparire come una contrapposizione piuttosto ruvida tra la forza e il consenso ( secondo la versione di Hollande che strepita contro «una minoranza» che blocca il paese e danneggia l’interesse nazionale), ma in realtà coglie un punto molto importante. Nessuna lotta è in grado, non dico di vincere, ma nemmeno di scompaginare o incrinare i giochi dell’avversario se non è nelle condizioni di incutere timore, di dimostrare concretamente che c’è un prezzo da pagare ed è piuttosto salato.
E l’avversario, naturalmente, non è l’eterna menzogna della Nazione, ma un padronato e una élite politica che vogliono guadagnare competitività insieme a una crescita sostanziosa dei profitti.
Il famoso articolo 2 della loi travail, quello che privilegia la contrattazione aziendale su quella collettiva, ha come posta in gioco sostanziale l’orario di lavoro, e cioè la tenuta di quelle sacrosante 35 ore settimanali conquistate con decenni di conflitti. È quasi superfluo ricordare che la lotta per la riduzione dell’orario è stata la costante più pura, meno ideologica e più aperta all’idea di libertà nell’intera storia del movimento operaio.
Il suo valore simbolico è grandissimo, tanto più nel momento in cui disoccupazione, sottoccupazione e precarietà fanno da beffardo contrappunto all’estensione del tempo di lavoro e all’ordinarietà crescente degli straordinari. Smentendo ripetutamente i benefici effetti sulla ripresa dell’occupazione attribuiti alle cosiddette «riforme». Le 35 ore, poi, contrariamente al nostro articolo 18, non riguardano uno strumento di difesa che si attiva in determinate (e rare) circostanze, ma la condizione permanente di vita quotidiana dei salariati.
Nonostante l’automazione e la massiccia contrazione del lavoro salariato esistono ancora settori di classe operaia (trasporti, logistica, energia) in grado di rallentare, se non di arrestare, la macchina produttiva di qualunque «sistema paese». Ronald Reagan lo sapeva benissimo quando diede il via alla riscossa del neoliberismo piegando con la forza lo sciopero dei controllori di volo.
In questi casi il gioco del potere consiste nell’isolare questi lavoratori in lotta, accusandoli di presidiare gli snodi decisivi nei quali operano in difesa di un privilegio corporativo contrapposto all’«interesse generale». Ma, in questo caso il gioco ha il fiato particolarmente corto. La riforma del lavoro non riguarda infatti questa o quella categoria produttiva, ma il rapporto tra capitale e lavoro en general. Si può sensatamente obiettare che una fetta crescente del lavoro è completamente escluso dalle tutele, dalle garanzie e dalla residuale forza contrattuale del lavoro subordinato.
Tuttavia anche questi soggetti si sono resi conto che la flessibilità imposta ai salariati, lungi dal rappresentare una possibilità di inclusione per loro, non farà che intensificare quel «dumping sociale» di cui già sono vittime. La ricattabilità del lavoro è una evidente reazione a catena. Non si spiegherebbe altrimenti una partecipazione così massiccia di studenti e giovani non certo provenienti dai ranghi del lavoro subordinato, né ad esso destinati, a una mobilitazione così lunga e tenace come quella cui stiamo assistendo in Francia.
La questione è ragionevolmente percepita come una questione politica, destinata a determinare il rapporto di forza tra soggetti subalterni e poteri dominanti, se non, addirittura, tra governanti e governati.
Temuti, ma detestati? La forza va forse a scapito del consenso? A guardare diversi sondaggi eseguiti nelle ultime settimane tra il 60 e il 70 per cento dei francesi si dichiarerebbe decisamente contrario alla legge così caparbiamente voluta da Valls e Hollande. E, del resto, il modo in cui la legge è stata fatta passare al primo vaglio dell’Assemblea nazionale, ricorrendo a una procedura che elude la discussione parlamentare, non sembra proprio dare un gran valore al consenso.
Non vi è dubbio che la rappresentanza sindacale sia indebolita in tutta Europa e la sua presa sulla realtà sociale risulti allentata. Ma cosa dire allora della rappresentanza politica? Il gradimento del governo socialista è ai minimi storici, l’impopolarità del presidente Hollande è alle stelle e una sua rielezione nel ’17 fuori dall’ordine del possibile. L’incapacità di ascoltare la società francese assodata. Eppure l’esecutivo si pretende incarnazione indiscutibile della «volontà generale».
Se la destra avanza a grandi passi verso il potere non sarà certo dovuto a qualche disordine di piazza, a qualche vetrina infranta, ma alla politica impopolare e al tempo stesso arrogante condotta da ciò che (disgraziatamente) resta del socialismo francese.
Giunti a questo punto forse è fin troppo tardi per arrestare l’ascesa del Front National o di un’altra destra che concorra a sedurne l’elettorato. Ma se una possibilità c’è è quella di rinunciare a imporre questa riforma recuperando un qualche rapporto col mondo del lavoro. Sappiamo che questo non accadrà per intelligenza politica del partito di governo. Potrebbe accadere solo per la sua paura di perdere il controllo della situazione.