Internazionale, 29 June 2018. Le contraddizioni dell'Italia: l'indiscussa accoglienza di masse di turisti e il respingimento di coloro che scappano cercando una vita migliore da parte dei nostri governanti e la solidarietà della gente ordinaria. (i.b.)
O forse, se fossimo a Hollywood, avrebbe detto qualcosa tipo: “Alla vostra sinistra potete osservare la casa di Rosa Anna Valtellina, la zia del regista italiano Andrea Segre. Proprio quella con l’uomo dalle fattezze arabe che fuma sul balcone. L’area sotto la casa è il posto in cui Segre ha girato molte scene del film Sono Li. Se percorrete a piedi la stessa strada, troverete il bar in cui lavorava nel film. Durante le riprese hanno cambiato il nome del bar, ma il proprietario ha deciso di mantenerlo anche dopo.
Qualunque cosa stesse raccontando loro la guida turistica, sono sicuro che non era ciò che mi ha detto Pietro la prima volta che sono saltato a bordo della sua barca a Venezia: “Non buttare niente in acqua, soprattutto i mozziconi delle tue sigarette: le spegni e le butti lì”, e ha concluso la frase indicando una piccola pattumiera in un angolo della barca. La seconda cosa che mi ha detto era: “Qualunque cosa succeda, non tenerti al bordo della barca con le mani, se proprio ti devi aggrappare a qualcosa, afferra questa”, e mi ha mostrato una corda.
Mi ha dato quel consiglio come se sapesse che avrei fatto proprio quello. Non avevo nemmeno declamato la mia famosa frase per queste occasioni: “Non sono bravo a nuotare, salvami se cado”. Ho smesso di pronunciarla un po’ di tempo fa, non solo perché era imbarazzante visto che sono nato e cresciuto vicino al mare, a Tripoli, “la sposa del Mediterraneo”, ma anche perché chi è pronto a salvare gli africani che annegano lo farebbe anche senza sentirselo chiedere, e continuerà a farlo anche se qualcuno gli dicessero di non farlo, cosa che sta succedendo adesso; mentre chi non li vuole salvare non lo farebbe nemmeno se gli venisse chiesto.
Pietro non mi ha mai spiegato perché non dovevo tenermi ai bordi della barca, ma mi ha detto che sarebbe necessario un gran talento per annegare in quel canale poco profondo o qualcosa del genere. Il motivo l’ho scoperto poco dopo, e nel modo peggiore, perché per poco non ho perso le dita quando la nostra barca ne ha sfiorato un’altra mentre cercavamo di schivarla. A quel punto lui mi ha sorriso: “Adesso sai perché, e non lo dimenticherai”. In quel momento il dolore alle dita mi ha insegnato due cose: primo, lui aveva ragione, secondo dovrei imparare più parolacce in italiano.
Pietro è per definizione un vero veneziano, pilotava la sua barca come non avevo mai visto fare prima, oscillando e manovrando negli stretti canali affollati come se stesse guidando un’automobile sportiva in un’autostrada vuota. Conosceva la storia di ogni crepa di ogni palazzo, muro o ponte nella città. Era affascinante osservare il modo in cui viveva. Credo che se il mondo dovesse trovarsi davanti a uno scenario da apocalisse, con la terra sommersa dall’acqua, i veneziani sopravviverebbero e dominerebbero il mondo postapocalittico, e forse Pietro sarebbe il presidente del nuovo mondo d’acqua.
Prima di conoscere Pietro a Venezia avevo trascorso qualche giorno a Chioggia, la versione meno turistica di Venezia, e quando non me ne stavo sul balcone a fumare e salutare i turisti mi godevo la compagnia di Rosa. Avevo portato ad Andrea un abito tradizionale libico, e mentre se lo stava misurando lei ha detto che le ricordava un elegante signore libico che aveva conosciuto in Libia e che le aveva detto con gentilezza che avrebbe dovuto aspettare un po’ perché il suo volo era stato cancellato. Quando ormai stava per arrendersi e andarsene, lui le ha parlato in italiano e si è offerto volontario per tradurle ciò che non capiva.
Questa storia mi ha incuriosito. Le ho chiesto quando avesse visitato la Libia, e lei mi ha risposto che il suo viaggio risaliva al 2003, quando era andata a fare visita a sua sorella Franca (la madre di Andrea). Le ho chiesto se avesse qualche foto della Libia e lei mi ha portato tante scatole con decine di foto e mi ha invitato a scavarci dentro.
Ci ho messo diverse ore per guardare tutte le foto. Ho scoperto che Rosa era un’avventuriera di prima classe che ha cominciato a viaggiare attorno alla metà degli anni sessanta, prima in Italia e poi in Europa, Africa e America. Si è accampata nel deserto con i beduini e li ha accompagnati sul dorso di un cammello in luoghi in cui le automobili non potevano arrivare con facilità, ha percorso a piedi le montagne nevose dell’Europa orientale e la sua ultima destinazione è stata Cuba, dove era stata pochi mesi prima che la conoscessi. Non parlava inglese, ma questo non le ha impedito di viaggiare. Ha raccontato che all’inizio usava il latino per comunicare: in ogni parte del mondo c’è sempre un prete e loro parlano tutti latino. “Anzi, in Norvegia parlano latino molto meglio di me”, ha raccontato.
Ho guardato le foto che aveva scattato in Libia, le strade di Tripoli, i mercati, la piazza dei Martiri, l’ingresso della città vecchia, Sabratha e le rovine greche e romane della Cirenaica. Ho provato invidia per lei, perché nei suoi ricordi quei luoghi resteranno per sempre belli, mentre oggi faticano a sopravvivere. Il caos fa dimenticare la ricca storia della Libia e di Tripoli, in pochi hanno voglia di preservare i suoi siti storici. Una di queste persone è Hiba Shalabi, una fotografa libica che ha lanciato sui social network la campagna #SaveTheOldCityTripoli.
Hiba ha cominciato a condividere foto che documentavano la distruzione degli edifici storici e ha chiesto alla gente di Tripoli di unirsi a lei. Ultimamente ad aggravare il livello di distruzione sono intervenuti i progetti edilizi deregolamentati avallati dalle autorità libiche che non solo non si curano della manutenzione di questi edifici, ma hanno cominciato a legalizzare questa distruzione concedendo ai costruttori il permesso di raderli al suolo a prescindere dal loro valore storico. All’inizio non sono stati in molti a sostenere Hiba. Poi l’ambasciata italiana in Libia ha sostenuto la sua campagna e nel giro di poco tempo diverse televisioni e giornali europei hanno condiviso la sua storia e a quel punto finalmente anche i giornali locali se ne sono occupati.
Mentre la città vecchia di Tripoli, come tante altre città storiche in Libia, sta morendo, trascurata e dimenticata dal resto del mondo, Venezia affronta il problema opposto. “Venezia è una vera città”: questa frase era scritta su striscioni verdi attaccati ai balconi delle case che si affacciavano sui canali.
Gli striscioni facevano parte di una campagna lanciata in occasione della Regata storica del 2017 e “ideata per contrastare la tendenza prevalente dei politici locali, regionali e nazionali a rendere prioritario il turismo a Venezia, come se la città non fosse altro che un limone da spremere. Sostenendo i residenti, le loro necessità e la loro qualità di vita con strategie di lungo periodo, Venezia potrà essere invece conservata e nutrita in quanto città viva, ed essere attraente per i turisti senza le tossine del turismo di massa”.
L’altra cosa che al Lido mi ha fatto tornare in mente Tripoli erano i posti di blocco. Il primo giorno del festival e prima di ricevere le mie credenziali sono stato fermato da ogni poliziotto a ogni posto di blocco e controllo di sicurezza. Questo mi ha fatto sentire a casa, con la differenza che ai posti di blocco di Tripoli i miliziani a volte indossano passamontagna neri e alcuni calzano sandali infradito. Controllavano il mio zaino, facevano tripli controlli sul mio passaporto.
La cosa divertente era che alcuni si ostinavano a volermi fermare sebbene avessero chiaramente visto che ero stato controllato al posto di blocco precedente, che si trovava lì vicino. Avevano qualche difficoltà ad accettare l’idea di un libico invitato al festival, forse a causa della dichiarazione del sindaco di Venezia che aveva detto che in cima agli edifici ci sarebbero stati dei cecchini pronti ad abbattere chiunque avesse gridato Allah akbar.
Quando stavo con Pietro non avevo bisogno di tirare fuori di continuo il mio passaporto. Di giorno lavorava in un bar e io me ne stavo seduto lì cercando di non dare fastidio. La mattina non è per me il momento migliore per fare conversazione, soprattutto con lui. Per qualche ragione mi capiva meglio di sera quando, dopo un paio di bicchieri di vino, il suo inglese diventava fluente. Stavo per lasciare il bar dopo un caffè e più o meno cinque sigarette quando è entrata una donna africana. Sembrava in difficoltà e parlava un italiano stentato. Lui le ha offerto una sedia, un caffè e due orecchie disposte ad ascoltarla. Ha capito che per qualche ragione aveva dovuto lasciare casa sua. Pietro ha telefonato alla polizia e ha fatto da traduttore. Le hanno dato qualche indirizzo dove avrebbe potuto alloggiare un po’ prima di capire cosa fare. Finita la telefonata, le ha disegnato una mappa e le ha spiegato come poterci arrivare.
Non gliel’ho detto subito, ma ho pensato a cosa potrebbe succedere se si estendesse l’accoglienza dimostrata ai turisti a tutte quelle persone per le quali lasciare le loro case è l’unica scelta possibile. E se addirittura queste persone avessero il permesso di viaggiare non finirebbero per diventare migranti irregolari, come vengono definiti. Mi chiedo cosa dicono loro quando li fanno salire a bordo delle imbarcazioni sulle coste libiche.
Forse qualcosa del tipo: “Tenetevi stretti ai bordi della barca, se il viaggio procede senza infiltrazioni d’acqua e guasti al motore, e se il tempo sarà abbastanza clemente, qualcuno di voi potrebbe avere davvero la possibilità di arrivare. Ma non vi ingannate, questo non è il purgatorio, perché anche se alcuni di voi vengono da posti peggiori dell’inferno, la destinazione verso la quale siete diretti non è il paradiso”.
Se fossi uno di loro, di sicuro non direi “Non sono bravo a nuotare, salvatemi se cado”, non solo perché chi è disposto a salvare gli africani che annegano lo farebbe anche senza sentirselo chiedere, ma anche perché preferirei annegare piuttosto che essere salvato dalla guardia costiera libica.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa).