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Gustavo Zagrebelsky
Norberto Bobbio e l’etica del labirinto
28 Settembre 2006
Scritti su cui riflettere
Esiste una speranza laica? Che dal labirinto ci sia un’uscita: la regione aiuterà a trovarla. Da la Repubblica del 27 settembre 2006

Alla domanda di un intervistatore che una volta gli aveva chiesto: «In che cosa spera, professore?», ha risposto: «Non ho nessuna speranza. In quanto laico, vivo in un mondo in cui è sconosciuta la dimensione della speranza».

Questo, in effetti, sembra un mondo di rassegnazione. Ma subito dopo ha precisato (pagg. 107-108): «la speranza è una virtù teologica. Quando Kant afferma che uno dei tre grandi problemi della filosofia è "che cosa debbo sperare", si riferisce con questa domanda al problema religioso. Le virtù del laico sono altre: il rigore critico, il dubbio metodico, la moderazione, il non prevaricare, la tolleranza, il rispetto delle idee altrui, virtù mondane, civili».

Ma noi possiamo a nostra volta domandare: in vista di che cosa? Sono virtù fini a se stesse o c’è qualcosa di simile a una speranza, una speranza laica, che le giustifica?

Rispetto a che cosa questi atteggiamenti, che per taluno (i dogmatici, i fanatici, gli inquisitori d’ogni risma, gli uomini dell’azione per l’azione) sono gravi difetti, possono invece essere concepiti, per l’appunto, come virtù e non semplicemente come disposizioni dell’animo prive di valore come tante altre, se non addirittura come corruzioni dell’animo, debolezze o almeno mancanze di energia? «Questi uomini mettono nel dubbio ogni cosa. Ma - dice l’Inquisitore nel processo a Galileo (B. Brecht, Leben des Galilei, 12. Trad. it., Vita di Galileo, Torino, Einaudi, 1994, pagg. 200) - possiamo noi fondare la compagine umana sul dubbio anziché sulla fede?».

In un passo della sua Autobiografia (a cura di A. Papuzzi, Bari, Laterza, 1997, pagg. 226 ss.) dedicato a «il problema della guerra e le vie della pace», riprendendo il tema di un corso universitario da cui è nato un libro famoso dallo stesso titolo e utilizzando le immagini ivi usate per descrivere la condizione dell’umanità nel tempo delle armi termonucleari (Bologna, Il Mulino, 1979, pagg. 21 ss.), Norberto Bobbio si interroga sul significato della vita individuale e collettiva per mezzo di tre immagini tratte da Wittgenstein, elevate a paradigmi: la bottiglia nella quale la mosca vola a casaccio, la rete in cui si dibatte il pesce, il labirinto entro il quale ci si aggira cercando la via per uscirne. Al di là del comune malessere, la mosca nella bottiglia, il pesce nella rete e l’errabondo nel labirinto sono in condizioni molto diverse. La mosca uscirà dalla bottiglia (sempre che sia senza tappo) solo per un colpo di fortuna. La sorte del pesce è invece segnata e il suo dibattersi non farà che impigliarlo sempre di più, mentre chi è perso nel labirinto può tentare di uscirne con il suo ingegno. La sorte, la necessità e l’ingegno sono le cause che muovono le tre situazioni. Bobbio, si comprende facilmente conoscendone il carattere prima ancora che l’opera, tra le tre immagini predilige quella del labirinto: «Chi entra in un labirinto sa che esiste una via d’uscita, ma non sa quale delle molte vie che gli si aprono innanzi di volta in volta vi conduca. Procede a tentoni. Quando trova una via bloccata torna indietro e ne prende un’altra. Talora la via che sembra più facile non è la più giusta; talora, quando crede di essere più vicino alla meta, ne è più lontano, e basta un passo falso per tornare al punto di partenza. Bisogna avere molta pazienza, non lasciarsi mai illudere dalle apparenze, fare, come si dice, un passo per volta, e di fronte ai bivi, quando non si è in grado di calcolare la ragione della scelta, ma si è costretti a rischiare, essere sempre pronti a tornare indietro». L’etica del labirinto richiede che «non ci si butti mai a capofitto nell’azione, che non si subisca passivamente la situazione, che si coordinino le azioni, che si facciano scelte ragionate, che ci si propongano, a titolo d’ipotesi, mete intermedie, salvo a correggere l’itinerario durante il percorso, ad adattare i mezzi al fine, a riconoscere le vie sbagliate e ad abbandonarle una volta riconosciute».

Le tre immagini corrispondono a tre visioni della vita e della storia e rinviano a tre etiche diverse: il pesce nella rete non ha prospettive per il futuro e può solo, subendo senza reagire con rassegnazione apatica, limitare il dolore; la mosca nella bottiglia può solo giocare disperatamente d’azzardo, agitandosi più che possibile sperando nella buona sorte; l’ospite del labirinto può ponderatamente coltivare una speranza, tenendo i nervi saldi e controllando responsabilmente la situazione. In tutti e tre i casi, si potrebbe sperare in un intervento esterno: qualcuno che ci liberi dalla rete, ci faccia uscire dal collo della bottiglia o ci conduca per mano fuori del labirinto. Ma questa sarebbe una prospettiva messianica, di un messianesimo religioso o storico, che presuppone la fede in qualcuno, un qualche salvatore (un messo divino o una forza storica) che ci trascende. Ed è per l’appunto ciò che è precluso a un Bobbio «che non ha alcuna speranza» di questo tipo: la salvezza, se salvezza ci può essere, non verrà da altri che da noi stessi.

Ma perché prediligere il labirinto, che lascia una speranza razionale, e non la rete, che toglie ogni speranza, o la bottiglia, che mette in gioco la cieca sorte? Per la semplice ragione che Bobbio è un uomo di ragione e scommette pascalianamente non sulla fede in un Dio trascendente o in una qualche «levatrice della storia» ma sulla ragione umana. A chi chiedesse quali buone ragioni d’essere vinta ha dalla sua questa scommessa, si dovrebbe rispondere semplicemente: nessuna buona ragione, ma è l’unica speranza per l’essere umano: e più non dimandare.

Nell’ultima pagina della già citata Autobiografia leggiamo: «Come ho detto tante volte, la storia umana, tra salvezza e perdizione, è ambigua. Non sappiamo neppure se siamo noi i padroni del nostro destino». Il che è quanto dire, per stare ancora all’immagine del labirinto, che non sappiamo se c’è l’uscita ma che dobbiamo sperare che ci sia e operare quindi come se ci sia e su questo esile filo costruire la nostra speranza, la speranza degli uomini di ragione e non di fede. Rispetto a ciò le virtù mondane e civili sopra ricordate possono per l’appunto essere ritenute virtù.

Si sarà notato che tutte queste immagini contengono in sé l’idea del passaggio da un luogo a un altro e che questo passaggio equivale alla liberazione dai tormenti, dall’oppressione, dall’infelicità. Questa è un’idea ebraica e cristiana. Il Dio di Israele è colui che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto per trarlo alla terra promessa; libera nos a malo implora la principale preghiera al Dio dei cristiani e la resurrezione del Cristo - centro del messaggio evangelico - è presentata come il passaggio da un regno a un altro, dal regno della morte al regno della vita. Questo passaggio, promesso a tutte le creature, è paragonato da Paolo di Tarso alle doglie del parto che travagliano il creato (Romani, 8, 19-22; 2 Corinti 5, 1-4).

Sono, queste, tutte figure dell’esodo, un nucleo concettuale che tanta parte ha avuto e ha tuttora nella formazione della mentalità del mondo occidentale. Le immagini della rete, della bottiglia e del labirinto ne sono soltanto versioni, per così dire, più familiari. In ogni caso, ciò che si intende dire è che la salvezza sta nel lasciare il luogo in cui siamo in oppressione e andare o ritornare in quello della libertà.

Anche per il labirinto è la stessa cosa. Anche qui si tratta di guadagnare la libertà. Una sua particolarità, rispetto ad altre immagini dell’esodo, è che l’uscita è all’indietro: occorre ritornare sui propri passi perché la libertà non è dove non siamo ancora mai stati ma là, da dove proveniamo. Il filo di Arianna e il mito di Teseo parlano non di progresso, ma piuttosto di regresso o, meglio, di ritorno al tempo felice perduto. Ma non è questo il punto più importante. E invece il postulato che ci sia un altro mondo, alternativo a quello in cui ci troviamo a vivere. Il labirinto è immagine che calza a pennello con l’idea del professor Bobbio circa le virtù laiche, indicate in alternativa alla speranza teologica. Ma si può dire la stessa cosa circa l’esistenza di questo «altro mondo»? Sembra di no.

Il passaggio da un mondo a un altro è idea tipicamente messianica. Essa evoca un intervento dall’esterno di «questo» mondo da parte di un salvatore, di una forza millenarista, di un qualche movimento palingenetico irrazionalista, di un capo inviato dalla provvidenza.

Nessuno di noi, comuni mortali, potrà mai aspirare a tanto, a scrollarci di dosso il nostro mondo per indossarne un altro. Nessuno di noi potrà mai pensare di dare un senso, una direzione alla sua e alle altrui vite per trasformarle in qualcosa di totalmente altro. A ritenere il contrario, si incorrerebbe nel sarcasmo di un Jacob Taubes (La teologia politica di San Paolo, Milano, Adelphi, 1997, pagg. 143) che, citando Kafka, dice che i tentativi dall’interno, come ad esempio quelli che si richiamano all’idealismo tedesco e alle «leggi della storia», non portano a nulla: «Il ponte levatoio si trova sull’altra sponda» (altra immagine dell’esodo); è dall’altra sponda, se mai, che lo devono abbassare per farci passare.

Dire che queste visioni catartiche sono del tutto estranee a Norberto Bobbio è perfino un’ovvietà. Nel suo universo concettuale non esiste un «altro mondo», diverso dal nostro; l’esodo è un’immagine consolatoria; il messia, un’illusione pericolosa. Noi siamo e resteremo nel nostro mondo, il mondo che costruiamo con le nostre forze. Siamo e resteremo nel labirinto. Il labirinto non è luogo dal quale si possa uscire e non possiamo attenderci nulla da fuori, meno che mai la nostra «salvezza». Il compito, il senso della vita e di quel aspetto essenziale della vita umana che è la cultura è lavorare insieme, nel dialogo e nel rispetto reciproci, nel rigore analitico, nell’assenza di dogmi messianici, affinché la condizione nel labirinto, che è la condizione umana, sia progressivamente resa più sopportabile, più umana, meno ingiusta. Tutto il resto non è che teologia politica. Se poi, indipendentemente da noi, «alla consumazione dei tempi» qualcosa (e che cosa) da fuori accadrà, sono solo punti interrogativi.

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