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Ma la scarsità di lavoro, diventata una convenienza strategica per il capitale, non è solo una immensa fonte di nuova legittimazione del suo dominio, è anche l'origine di un progressivo arretramento della nostra civiltà. Siamo al punto che ormai esaltiamo senza nessun pudore i nostri successi industriali anche quando sono finalizzati alla guerra, a portare morte e distruzioni presso altri popoli. Finmeccannica firma un maxicontratto per la fornitura di 28 Eurofighter Typhoon al Kuwait, titolava trionfante Il Sole 24 ore il 4 aprile e ripetevano con pari giubilo gli altri grandi quotidiani nazionali. Ma l'inglese dei termini usati non può cambiare la natura criminale dei prodotti. Fighter significa combattente, e quell'euro che lo precede serve solo a camuffare e nobilitare il termine, quasi si trattasse di un computer di nuova generazione, mentre è invece un aereo, un areo Typhoon, cioé uragano, che genera una tempesta di morte. Plaudiamo a Finmeccanica che crea occupazione costruendo aerei da combattimento, destinati ad alimentare le guerre che infuriano in Medio Oriente?
Certo, lo sfruttamento del mare non è paragonabile all'industria degli armamenti. Sono due cose molto distanti tra loro. In un caso – ma solo quale esito indiretto o incidentale – si uccidono pesci e si distrugge l'habitat marino, e per lo meno si produce petrolio, nell'altro si producono armi per uccidere espressamente uomini e donne. Ma chi difende le ragioni del no a tutela dei posti di lavoro deve essere portato a riflettere su un altro aspetto. La convenienza a sfruttare le vecchie economie comporta un rallentamento degli investimenti nelle nuove. E questo è storicamente provato.Quando nel 1972, il Club di Roma pubblicò il Rapporto sui limiti dello sviluppo, circolato poi in piena crisi petrolifera, si aprì una vasta discussione sulla ricerca di energie alternative. Un dibattito destinato ben presto a esaurirsi quando si scopri che di petrolio ce n' era ancora tanto, nella pancia della Terra, insieme a veri e propri oceani di gas. E per i decenni successivi gli investimenti di ricerca, nel solare e nell'eolico, divennero diletti per hobbisti solitari.Quanti investimenti e ci ha fatto perdere lo sfuttamento degli idrocarburi? Quanto gas serra avremmo potuto risparmiare al nostro clima?
Ma c'è un'altra ragione ancora più importante da considerare. Già in passato nel nostro paese è stato commesso un grave errore di strategia industriale. Quando, tramite gli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno, si occuparono tanti siti costieri del nostro Sud, da Brindisi fino a Priolo, venne adottata una politica non dissimile da quella dell'ENI in Basilicata. Grandi strutture industriali calate dall'alto, che non generarono nuove economie, non stimolarono una ulteriore crescita del territorio, perché estranee ad esso, alla sua storia, alle sue vocazioni, ai saperi delle genti che lo abitano. Anche allora territori di altissima qualità (mica i deserti dell'Arabia Saudita) furono letteralmente “svenduti” all'industria, in gran parte pubblica. Si trattava e si tratta di industrie che potremmo definire nature intensive, che consumano risorse naturali (immense quantità d'acqua) inquinando suoli, strati aerei, fondali marini. Ma almeno allora, nell'errore, quegli interventi erano interni a un progetto generale di sviluppo del nostro Mezzogiorno. Si pensava di generare posti di lavoro investendo in attività industriali che peraltro non si esaurivano nell'insediamento dei petrolchimici. Ma oggi? Dobbiamo continuare a difendere attività residuali? Dobbiamo conservare i pochi posti di lavoro gentilmente concessi dalla Total e da Shell, senza badare alla nostra industria turistica, alla vita dei nostri mari, al riscaldamento climatico che incombe, alimentato in misura così rilevante dal consumo di petrolio?