Giorni fuori dal monastero: la sua presenza è richiesta, pregata. Sperata. Conferenze, inviti, presentazioni. La voce profonda e quieta raccoglie attenzione, intercetta sensibilità; gli occhi chiari e stretti in quel faccione barbuto e canuto, apparentemente burbero, calamitano sguardi, seminano interrogativi e riflessioni. Lui, Enzo Bianchi, monaco, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, pare non curarsi però di questo «successo»; a domande risponde, cortese. Ma è dai tocchi delle campane - a scandire le ore del lavoro, della preghiera e del silenzio - che il suo tempo è davvero segnato. Le conferenze, le presentazioni, i libri ne sono importante corollario.
Anche questo ultimo libro, L’altro siamo noi (Einaudi), è il frutto di una meditazione prolungata nel tempo e sperimentata nelle circostanze. È l’analisi critica di due categorie di appartenenza: «noi», «gli altri», declinate spesso in contrapposizione, per capire problemi, giustificare atteggiamenti e incomprensioni. L’occasione per tornare a parlare dello «straniero», dell’«altro », e farlo attraverso una visione che passa per il dialogo, partendo da ciò che è alla base dell’esperienza umana, al di là di contingenze politiche e storiche. Del resto, anche nel commento al Vangelo della Pentecoste Bianchi lo ricorda: «È proprio nella potenza dello Spirito che la comunità cristiana può testimoniare Cristo in mezzo a tutti gli uomini, “nelle loro rispettive lingue”».
Due paradigmi per cominciare: memoria e alterità. Cosa significano insieme nella sua visione del mondo e della storia?
«La memoria del nostro passato e delle tradizioni culturali e religiose che ci hanno plasmato è anche richiamo all’apporto fornito dagli “altri” che, a loro e nostra insaputa o meno, hanno finito per forgiare un’identità nuova, la nostra di oggi. E questa, o permane dinamica, aperta all’alterità, oppure si fossilizza».
A questo proposito: nelle prime pagine del libro lei ipotizza “la morte del prossimo”, colui che più è vicino. In che modo avviene questa morte e perché?
«La consapevolezza della complessità dei problemi della nostra società da un lato suscita l’attenzione a realtà e situazioni fisicamente lontane,ma sovente è un interesse epidermico e momentaneo, mentre d’altro canto può produrre un ben più duraturo ripiegamento su se stessi, in una difesa del proprio interesse particolare che ignora l’altro. È sempre stato più difficile amare il vicino che il lontano, ma oggi non vediamo nemmeno più, o non vogliamo vedere, chi ci sta accanto e la cui presenza ci disturba perché considerata una minaccia al nostro quieto vivere».
Indica l’ascolto come scelta fondante di ogni incontro. Ma come riuscire a far prevalere questo modello educativo ed etico?
«Ad ascoltare si impara ascoltando, cioè lasciando spazio in noi alle parole e al pensiero dell’altro. Certo, in una società in cui si sentono tante parole e rumori e non ci si ascolta quando si parla o si discute, questa è un’educazione contro corrente, ma resta premessa indispensabile a ogni tipo di dialogo. Come posso interloquire se non sento quello che l’altro mi dice? Senza dimenticare che ascoltare, udire, ha la stessa radice etimologica di ubbidire: ascolto è anche obbedienza al fatto che l’altro è là e mi interpella».
Eppure, come lei stesso ricorda, la violenza e l’aggressione verbale sono un habitat quotidiano: a cominciare dalla tv tutti si sentono autorizzati e incoraggiati alla rissa, al dileggio, alla rottura delle regole. Alternative possibili secondo lei ce ne sono?
«Un’alternativa sarebbe il silenzio o, meglio, l’articolazione intelligente tra silenzio e parola: la scelta di tempi e momenti opportuni per dire una parola che abbia la possibilità di essere ascoltata. È inutile aggiungere anche il proprio urlo al vociare indistinto, “a caldo”: meglio fermarsi un attimo, pensare, lasciare che le emozioni si plachino, fare “memoria” dell’evento particolare per rileggerlo in una prospettiva più ampia, con un respiro più universale. A volte ci sono silenzi molto più eloquenti di tante urla».
Quando parla del dialogo lei afferma che il fine non è il consenso. Un’idea di comunicazione differente a quella cui siamo abituati, se pensiamo soprattutto al confronto politico. Quali elementi sono necessari per dialogare veramente?
«Innanzitutto la consapevolezza di essere parte di un’unica umanità, la solidarietà tra esseri umani, la convinzione che perfino il mio nemico può essere il mio migliore maestro, in quanto nel dialogo, anche acceso, mi obbliga a far emergere il meglio di me stesso per sostenere il mio punto di vista e la rettitudine del mio pensare e agire. Da un dialogo autentico non si esce con il trionfo di un pensiero unico, ma con una riflessione più articolata, cosciente dei propri limiti e della propria fondatezza. E anche, con il rispetto delle idee dell’altro».
Nell’incontrare lo straniero, lei scrive, ci si deve porre come responsabili di lui senza attendersi reciprocità. Una relazione disinteressata e gratuita. Eppure la percezione diffusa è: “Fanno i padroni in casa nostra,s ono arroganti, prepotenti”.Quale relazione di gratuità e accoglienza con queste impressioni?
«È chiaro che in tempi di crisi sociale ed economica i pregiudizi si acuiscono mentre si moltiplicano i conflitti tra quanti sono poveri o temono di diventarlo, ma la via d’uscita passa attraverso la solidarietà e il sentirsi responsabili gli uni degli altri. Ora, essere responsabile dell’altro significa averlo riconosciuto come proprio simile, abitato da attese e speranze analoghe alle nostre, sofferente per ferite simili alle nostre... Quello che riteniamo “giusto” per la nostra società, quello che giudichiamo eticamente corretto non può dipendere dalla reciprocità, o dal calcolo meschino di costi e benefici, ma dai principi che ci muovono, dai valori che perseguiamo, dalle soluzioni che insieme cerchiamo e troviamo per tradurre in comportamenti quotidiani le aspirazioni di bene, o di male minore, cui tendiamo come collettività. Se, come singolo o come società, ritengo giusta e doverosa una determinata azione, la compio e cerco di favorirne la diffusione, senza aspettare che anche gli altri la riconoscano a loro volta come giusta».
Si è parlato di emergenza immigrazione e questione sicurezza. Lei perché sostiene che la vera emergenza non ha il nome di un’etnia ma quello della nostra civiltà?
«Ciò che è messo alla prova dal fenomeno dell’immigrazione non è tanto il nostro tenore di vita o alcune nostre abitudini, ma la nostra “civiltà”, il nostro restare persone civili in una società civile, che custodisce e difende i diritti di ciascuno, che richiede a tutti di rispettare le leggi e i doveri propri di questa realtà sociale, che rifugge dalla barbarie della legge del più forte... è questa la sfida che il fenomeno migratorio, ci piaccia o no, pone oggi al nostro paese come agli altri paesi di immigrazione. Una società consapevole di dover difendere non dei privilegi di pochi ma dei diritti di tutti è anche più sicura per ciascuno: la sicurezza infatti non sta nell’alzare il livello delle nostre difese, ma nel “disarmare” ciò che può recare offesa a una vita degna di tal nome: lottando cioè contro miseria, ingiustizia, oppressione... ».
Però la paura dello straniero esiste, e ha due facce. C’è la nostra paura e la loro paura, col rischio che entrambe vengano assolutizzate.
«Il guaio della paura è proprio la sua capacità di generarne un’altra, uguale e contraria, e così di autoalimentarsi. Da questo circolo vizioso si può uscire solo “insieme”, mai senza l’altro o contro di lui. Conoscere se stessi, i propri limiti, le proprie risorse, e conoscere l’altro attraverso l’ascolto e il dialogo è il punto di partenza per affrontare la paura e vincerne le irrazionalità. Da questo incontro e conoscenza reciproca si potrà uscire con la consapevolezza di essere di fronte a grosse difficoltà, ma anche con la speranza fondata di poterle affrontare e superare insieme. In fondo credo sia anche questo ciò che forgia l’identità di un popolo: l’armonizzazione dei diversi e il loro costruire insieme un futuro migliore per se stessi e per le generazioni a venire».