». il manifesto, 18 novembre 2016 (c.m.c.)
Sul segno reale della vittoria di Donald Trump, le opinioni in merito paiono tanto polarizzate quanto la società che l’ha prodotta. È l’incedere della crisi che sta stravolgendo non solo la vita materiale di milioni di persone, ma anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. Il disfacimento della Obama coalition e l’affermazione del fenomeno Trump proietta una luce globale sul Midi francese già roccaforte del Pcf e ora bacino di consensi per la vandea lepenista; o ancora sull’Emilia fu rossa che alza barricate contro un pugno di donne e bambini migranti.
La crisi attuale, nella lettura che, per certi versi anticipandola, ne è stata data da Giovanni Arrighi, è la piena epifania della crisi del sistema egemonico della grande fabbrica integrata e imperniato sugli Stati uniti d’America, in realtà già avviata alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Il modello di Arrighi prevede che ogni ciclo espansivo del capitalismo giunga a saturazione per una doppia pressione che si scatena sui profitti: pressione orizzontale dovuta alla concorrenza tra imprese, pressione verticale dovuta alla spinta delle rivendicazioni delle classi subalterne.
Si produce dapprima una «crisi-spia» del sistema egemonico, cui il capitale tende a sfuggire tramite il ricorso alla finanziarizzazione. Il boom borsistico dà luogo ad una euforia dei mercati mondiali che rende possibile un momentaneo superamento della crisi (le belles époques). Ma allo scoppio della bolla la crisi esplode con violenza ancor maggiore, con la conseguenza della ripresa del conflitto sociale, questa volta allargato dai subalterni alle classi medie, cioè a quei gruppi sociali che avevano costituito il collante del precedente regime di accumulazione; che avevano fatto sì che esso si instaurasse in termini di egemonia e non di puro dominio.
Il tema della condizione di questa classe media, delle sue aspirazioni e delle sue frustrazioni, è oggetto di una contesa egemonica all’interno dei Paesi a capitalismo maturo e tra le cosiddette economie emergenti. Nel corso della belle époque le disuguaglianze sono in genere socialmente tollerate, ma nel momento in cui le prospettive di stagnazione si fanno «secolari» non possono più esserlo. A determinare l’esito politico dei processi sociali innescati concorre la capacità dei soggetti organizzati di politicizzare e attrarre a sé nuovi protagonisti del conflitto sociale.
Negli Stati uniti di questo primo scorcio di XXI secolo il tema è tornato in auge. Uno studio del 2012, a cura del Pew Research Center, recava l’eloquente titolo The lost decade of the middle class. Il dato econometrico sulle disuguaglianze ha ben presto lasciato il passo alla disputa politica tradizionale tra democratici e repubblicani. Lungi dal rappresentare un’alternativa reale al cosiddetto establishment, Trump ne è una particolare e nuova incarnazione, nel tentativo di sussumere e neutralizzare reali istanze sociali.
Lo sfarinamento delle classi medie, e l’emergere di nuovi protagonisti, sta introducendo tuttavia mutamenti massicci nei sistemi politici liberal-democratici. Quello dell’impermeabilità dello scontro partitico a quanto si muove nella società non è uno scenario sostenibile. Iniziarono già ad inizio secolo i regimi oligarchici latinoamericani a crollare sotto l’urto della crisi. Seguì la Grecia, con la pratica scomparsa di uno dei pilastri del regime liberale, il Pasok, e di lì a breve saltarono altri sistemi bipolaristi, come quello spagnolo sorto dalla Transizione e quello italiano che aveva caratterizzato la seconda repubblica. E già la V Repubblica francese si avvia a essere sconvolta dall’ondata lepenista.
Se il bipartitismo made in Usa sarà in grado di assimilare la presidenza Trump e la contemporanea spinta radicale manifestatasi nel corso delle primarie nel sostegno al socialista Sanders è forse ancor presto per dirlo. Di sicuro c’è che la governance neoliberale, l’estremo centro in cui ci sono spazio e risorse per rispondere a tutte le più disparate istanze provenienti da una società frantumata, o meglio ancora inesistente, crollano assieme all’illusione dell’eternità della belle époque.
«La crisi – annotava Gramsci – crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifici, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere».
La caduta dei pilastri di un ordine che tramonta può essere gravida di grandi pericoli, ma allo stesso tempo di altrettanto grandi opportunità di riarticolazione politica del sociale. Un terreno del tutto nuovo che le forze democratiche non possono permettersi di lasciare in balia dei tanti Trump che si candidano a monopolizzarlo.