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Vezio De Lucia
Non facciamo morire le città
18 Novembre 2008
Recensioni e segnalazioni
Una recensione per eddyburg del libro di Gianni Biondillo, Metropoli per principianti, e un caloroso consiglio di lettura ai frequentatori di questo sito

Un libro sorprendente. L’autore, Gianni Biondillo, è un architetto diventato scrittore. Nella nota biografica nel risvolto di copertina si legge che ha pubblicato saggi su Figini e Pollini, Giovanni Michelucci, e poi su Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Elio Vittorini. Questo suo ultimo libro (Metropoli per principianti, Guanda, 2008, 12 €) mi pare che sia l’anello di congiunzione fra l’architettura e la letteratura. Un libro da non perdere, che si dispiega dalle riflessioni sul mestiere dell’architetto a una galleria di protagonisti dell’architettura italiana contemporanea, dal rapporto tormentato con Quarto Oggiaro, il “luogo comune” dov’è vissuto da giovane, al disastro dei paesi della provincia di Caserta, terra d’origine della sua famiglia. Infine, pagine di cronaca e di speranza sui nuovi immigrati.

Il titolo del primo capitolo del libro è “Non fate studiare architettura ai vostri figli”. Non ne vale la pena, sarebbe il peggiore degli investimenti. “Non esiste categoria più bistrattata, sfottuta, derisa: dai padroni di casa, dagli imprenditori edili, dai muratori, dagli ingegneri, dai geometri. Un incubo”. Continua così in pagine sconsolate, e talvolta esilaranti, a raccontare lo sfruttamento dei giovani da parte di professionisti affermati, dodici – sedici ore al giorno a disegnare sempre e solo scale di sicurezza e pozzetti d’ispezione, le file all’alba sotto gli uffici del catasto. E finisce con il dar ragione a Vittorio Gregotti quando consigliò ai giovani che intendevano iscriversi ad architettura di “scegliersi genitori ricchi”. Poi, fulminea, travolgente, l’inversione di rotta: l’architettura è la più bella delle facoltà universitarie. L’architettura “è l’ultima disciplina perfettamente rinascimentale, dove tutto rimanda a tutto”, e quindi un elogio, francamente esagerato, della nostra formazione.

Non ho titolo per esprimermi sulla play list secondo Biondillo degli architetti contemporanei. Confesso però di essermi entusiasmato quando ho letto che Aldo Rossi non gli piace. “Capisco cosa voleva fare, cosa voleva dire, intellettualmente lo comprendo. Ma non mi piace” (e mi permetto di condividere anche il suo giudizio che Zaha Hadid è uno degli architetti più sopravvalutati). Non me la prendo quando inserisce fra i meritevoli qualche mezzacalzetta napoletana. Sto invece coscienziosamente dalla sua parte nella (quasi) difesa delle Vele di Scampìa, del Corviale, di Forte Quezzi, dello Zen. Ha ragione nel sostenere che la causa della degradazione ha a che fare con la politica, non con l’architettura. Il difetto è stato crederci, sostiene Biondillo: “Credere che l’Italia fosse un paese abbastanza moderno, abbastanza civile, da progettare tali macrostrutture, con tutti i servizi e il verde connesso, e poi prevedere l’efficienza nel tempo di tali macchine abitative, programmandola nel futuro. Noi siamo il popolo dei grandi eroici slanci, ma poi l’ordinaria manutenzione non la vuol fare nessuno”. Perfetto.

La contaminazione fra letteratura e architettura Biondillo la concretizza sapientemente nelle descrizioni del paesaggio contemporaneo, quello fisico e quello sociale, di Sassuolo, della Campania infelix (“la sconfitta dell’antipianificazione”), di Quarto Oggiaro (la sua ossessione). E non è solo nella descrizione, ma soprattutto nei ragionamenti intorno alla degradazione della periferia senza storia e senza memoria che coabitano la qualità espressiva del narratore con le competenze dell’architetto (anzi dell’urbanista, parola quasi mai usata da Biondillo, chissà perché). A Sassuolo, negli anni Sessanta, al tempo del boom economico e della prima ondata migratoria dal Mezzogiorno, la gestione pubblica del territorio e del welfare – nuovi quartieri popolari, scuole, verde, servizi – rispose in modo ammirevole ai bisogni dei nuovi cittadini. L’ondata migratoria degli ultimi anni è stata affidata viceversa al mercato, al liberismo, alla privatizzazione. Come se gli extracomunitari non fossero anch’essi portatori di diritti. Usciti dalle fabbriche, dai cantieri, dalle campagne, gli immigrati sono obliterati, per riapparire miracolosamente la mattina dopo. “Ma l’inesistenza sociale implica l’inappartenenza, la disaffezione al luogo dove si vive, la marginalità sociale”. E il sentimento di cittadinanza non può venire dal mercato che fa perdere di senso agli spazi pubblici, “li desimbolizza”.

A Sassuolo, come in tutta l’Italia, le dotazioni pubbliche si stanno sperperando. Biondillo descrive lucidamente come ormai la socialità si esprima in spazi collettivi privati: quelli per l’infanzia, i parchi a tema, le discoteche, le multisala, i centri commerciali. Le attrezzature collettive pubbliche sono, al contrario, sempre più abbandonate, davvero non luoghi, e se ne impossessano gli extracomunitari. Tutto ciò avviene nel nome della sicurezza. Accettiamo come collettivi solo gli spazi «sicuri», monitorati, con gli accessi controllati, le guardie agli ingressi. Insomma, “ciò che è privato, è mio, è. Mentre ciò che non è mio, ciò che è proprietà pubblica, non è”. Secondo Biondillo è così che muore una città, quando perde la sua natura di luogo di libertà e di scambio sociale, in nome della sicurezza. E ricorda Beniamino Franklin: “chi rinuncia alla libertà per raggiungere un po’ di sicurezza, non merita né la libertà, né la sicurezza”.

Gli immigrati di ieri e quelli di oggi

Una pagina dal libro di Biondillo

Il filo rosso che attraversa il libro di Biondillo è l’ottimismo. L’ottimismo in una ragione che finisce sempre con l’aver ragione. E dio solo sa se ce n’è bisogno. Un esempio nella pagina che riportiamo qui di seguito.

Sono spaventato di come tutta una classe politica, di destra, di sinistra, batta il tamburo della sicurezza, in modo emotivo, spesso immotivato. Sembra d’essere dentro chissà quale emergenza, quasi che fino a ieri si fosse vissuti in modo idilliaco, senza problema alcuno. Poi sono arrivati loro, gli altri, i diversi, i mostri, e tutto è precipitato. La storia davvero non insegna nulla, sembra non si impari mai niente dal nostro passato. Io sono figlio di quei mostri che negli anni Sessanta invadevano mezza Europa, figlio di quei terroni che puzzavano d’aglio e cipolla, che vociavano nei cortili di periferia di Milano, di Zurigo, di Monco. Così poco urbani, così poco domestici. Eppure eccomi qui, con tanto di laurea al petto, integrato, addomesticato. È bastata una sola generazione; ma in fondo lo volevamo, chiedevamo il pane e le rose e siamo stati accontentati, noi, pieni di gratitudine nei confronti della società capitalista. E, a pensarci, così sarà pure con i figli dei mostri d’oggi, con i figli di quelli che sopravvivono agli sbarchi clandestini e alle umilianti condizioni di vita, che superano gli sguardi d’ingiuria, che lavorano in nero, che precipitano dalle gru, che pregano dentro capannoni abbandonati, che si prostituiscono di notte, davanti ai cimiteri. Loro sono così perché credono nel nostro stesso sogno capitalistico, liberista, libertario, nelle paillettes televisive, perché vogliono il pane e le rose anche loro. Sono qui perché è inevitabile che siano qui, come la seconda legge della termodinamica, ché per quanto tu isoli, blindi, chiudi a chiave, loro arriveranno comunque, a prescindere: troveranno di volta in volta una falla, un buco, uno sbrego. La tolleranza zero è una pia illusione, l’immigrazione zero una chimera. Arrivano, arriveranno, mischieranno il loro sangue al nostro. Li riconosceremo, da un certo punto della nostra vita, come fratelli. In un modo o nell’altro, con fatica, con frizioni sociali, cercheranno una integrazione possibile. Perché, in fondo, loro per primi la vogliono. Hanno accettato le regole del gioco. Il nostro gioco.

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