Il manifesto, 18 aprile 2015
Il gommone barcolla, il «nemico» è al tuo fianco, ti sfiora, mentre invoca il suo dio, non serve nemmeno il machete, basta una spinta e un «kafir» (miscredente) finisce tra le onde. Le minacce non servono: di fronte alla morte chi ha un dio lo prega. E i cristiani del gommone, come i musulmani continuano a pregare. Altri finiscono tra le onde… Dodici muoiono, vittime non del mare, o per mancanza di soccorsi, ma per un proseguimento della guerra che li ha costretti a lasciare il loro paese. Quasi una rappresentazione plastica di un conflitto terribile. Orribile. Ancora di più se avviene su un gommone, perché non hai scampo.
Ma non l’hanno avuto nemmeno le duecento donne rapite da Boko Haram in Nigeria, un anno fa.
La tragedia del gommone avrà delle conseguenze, non solo per i quindici musulmani accusati della strage. La reazione in Italia è stata immediata: la guerra di religione è qui tra noi. Un nuovo motivo per respingere i disperati del mare, per rimandarli indietro, per non lasciarli nemmeno partire, dalla Libia. Ovvero condannarli tutti a morire se non di religione, di fame o di guerra.
Un ulteriore imbarbarimento, tra di noi, non solo in Libia o in Nigeria, ma in Europa. Come se l’Europa non avesse mai conosciuto le guerre di religione, il nazismo, il fascismo (perché questo è il fanatismo di chi fa della religione la legge per eliminare tutti i diversi, anche coloro che credono nello stesso dio, per opprimere le donne) e ora si chiama fuori, mancano le risorse. In nome del dio denaro si lasciano al loro destino i fedeli di Allah, di Dio e quelli che un dio non ce l’hanno nemmeno. Ma l’Italia è immersa nel Mediterraneo e da millenni meta di chi lo attraversa, questa è stata la sua ricchezza non una condanna