Stavolta il santo protettore della storia dell’arte ha fatto un piccolo miracolo. Una funzionaria del Ministero per i Beni culturali ha fatto come lo scrivano Bartleby di Melville: ha detto «preferirei di no». Ed ha così inceppato la gioiosa macchina da guerra che si apprestava a cercare la ‘Battaglia di Anghiari’ di Leonardo conficcando alcune sonde in uno degli affreschi di Giorgio Vasari in Palazzo Vecchio.
I predatori del Leonardo perduto hanno una lunga storia: sono decenni che l’ingegner Maurizio Seracini cerca di convincere qualcuno a investire tempo e denaro in questa specie di corsa al santo graal. E ora che aveva trovato i soldi (del National Geographic, le cui telecamere sono già nel Salone dei Cinquecento), la copertura politica (quella del sindaco Matteo Renzi, andato appositamente negli Stati Uniti per concludere gli accordi), e l’accordo della Soprintendente Cristina Acidini, ecco che la funzionaria Cecilia Frosinini – responsabile delle pitture murali all’Opificio delle Pietre Dure – fa obiezione di coscienza, sollevando quella che chiama una «questione etica»: «la mia missione – dice – è tutelare le opere d’arte, qui si fa un intervento invasivo sulla pittura». È difficile pensare ad una funzionaria di soprintendenza come ad una piccola eroe borghese. Nell’immaginario collettivo – devastato da vent’anni di politica del «padroni in casa propria» – i soprintendenti sono avvertiti come grigi passacarte che ci impediscono di fare quel che ci pare delle nostre città o delle nostre case. In un caso come questo, però, ci accorgiamo che se il nostro patrimonio resiste – malgrado tutto – lo dobbiamo a quella sorta di ‘chiesa bassa’ dei funzionari di soprintendenza che, operando in modo fedele al dettato costituzionale, cerca di tener testa ai poteri locali in nome della conservazione e della dignità culturale delle opere e del territorio che sono loro affidati. Cristina Acidini – che è la diretta superiore della coraggiosa dottoresa Frosinini – si era invece platealmente genuflessa a Matteo Renzi: la ‘chiesa alta’ dei pochi super-soprintendenti è infatti totalmente succube, e in ultima analisi complice, del potere politico e finisce per tradire sistematicamente la propria missione avallando e cavalcando le più inverosimili iniziative di ‘valorizzazione’ delle opere che dovrebbe salvaguardare.
Ma perché è così sbagliato cercare il Leonardo perduto? Essenzialmente per tre motivi: perché quasi certamente non esiste più; perché per cercarlo si deve danneggiare Vasari; perché ben altre sono le priorità, anche restando in Palazzo Vecchio.
Nel 1503 il Gonfaloniere della Repubblica fiorentina chiese a Leonardo di raffigurare la Battaglia di Anghiari nella Sala del Consiglio Grande di Palazzo Vecchio, sulla parete che sovrastava i seggi del governo. Il Vinci volle sperimentare una nuova tecnica di pittura murale, che si rivelò fallimentare: già durante l’esecuzione il dipinto come scrive Vasari, «cominciò a colare, di maniera che in breve tempo [Leonardo l’] abbandonò». Rimase visibile solo un meraviglioso viluppo di cavalieri che lottavano strenuamente per uno stendardo. Mezzo secolo dopo il duca Cosimo de’ Medici incaricò proprio Giorgio Vasari di trasformare quella grande sala: e il risultato fu il Salone dei Cinquecento. L’idea di ritrovare Leonardo può apparire romantica, ma se la si guarda con un po’ di senso critico appare antistorica, velleitaria, pericolosa e demagogica.
È da escludere che Vasari, che venerava Leonardo, abbia nascosto un simile capolavoro. Egli aveva tutti i mezzi tecnici per tagliare il muro e salvare il dipinto: lo fece con maestri quattrocenteschi che amava assai meno del Vinci. Solo una mentalità da Codice da Vinci e la nostra infantile illusione di essere al centro della storia può indurci a credere che Vasari abbia seppellito un tesoro sotto un muro inamovibile: per quale futuro, e a quale scopo? Molto più semplicemente, l’intervento vasariano dimostra che nel 1560 di quello sventurato, grandissimo Leonardo non doveva restare più nulla. E, come se non bastasse, la storiografia più autorevole e credibile indica che la parete su cui aveva dipinto Leonardo era quella occidentale, e non quella orientale che ora si vorrebbe sforacchiare.
Ora, per cercare qualcosa che assai probabilmente non c’è più, e che quasi sicuramente non è mai stato in quel punto della sala, si mette a rischio un capolavoro vero e concreto come il ciclo vasariano. E ancora: se la sonda scoprisse qualcosa di promettente (il muro di un palazzo con quella lunghissima e complicata vicenda edilizia è ovunque pieno di intercapedini e preesistenze), che succederebbe? Si chiederebbe lo strappo dell’affresco del Vasari a furor di popolo?
Infine, c’è da chiedersi: è questa la priorità? Qualche giorno fa ho rivisto le sale di Palazzo Vecchio, e (da fiorentino) mi sono vergognato per lo stato di abbandono in cui versano. Gli affreschi del Quartiere degli Elementi sono in pessime condizioni, le pitture del Terrazzo di Saturno cadono letteralmente a pezzi, dai soffitti affrescati delle scale pendono i fili elettrici e lo stesso Salone dei Cinquecento è arredato e illuminato come una sala parrocchiale di provincia, e quando viene sera le statue (anche quelle di Michelangelo o Giambologna) sembrano ombre cinesi.
Il punto 63 dei cento punti usciti dal Big Bang di Matteo Renzi è (rivoluzionariamente) intitolato alla «funzione civile del bello», e propone di «restituire ai cittadini di oggi l’arte del passato» perché «il patrimonio artistico diffuso nel Paese è un bene comune che ci unisce».
La funzionaria Cecilia Frosinini, opponendosi alla demagogia e al marketing in nome della scienza e della coscienza, sta attuando esattamente quel punto. Chissà se Matteo Renzi se ne renderà conto, e comprenderà che se vuole restituire ai cittadini Palazzo Vecchio c’è bisogno di manutenzione, restauro e divulgazione: non di demagogia, marketing, politica dell’immagine.