la Repubblica,
Nicola Sartor, accento sulla o come si addice «al figlio di un vicentino concepito a Trieste e partorito a Bolzano», è rettore dell’Università di Verona. 65 anni, economista. Nella città delle due destre, la Lega di Tosi e l’altra destra, l’Ateneo è indicato come una roccaforte - culturale della sinistra. «È il segno dei tempi», sorride, e spiega: «Sono un uomo di cultura liberale. Cattolico. Ho prestato servizio da indipendente come sottosegretario nel secondo governo Prodi. Ero in Banca d’Italia, mi chiamò Padoa Schioppa. Il mio compito era banale. Portare l’Italia fuori dalle procedure di deficit. Dovevo solo difendere il rigore finanziario. Le scelte politiche non competono a chi deve far tornare i conti. Non ero eletto, cosa che dà il grande vantaggio di non avere un collegio elettorale con interessi da difendere». Accetta di analizzare la condizione della sinistra ma lo fa, dice, da osservatore: «Da semplice cittadino elettore, la politica non è la mia competenza. Posso dirle però qualcosa delle politiche economiche».
Volentieri. Un parere generale sull’azione politica di Renzi, per cominciare.
«Renzi ha cavalcato il tema generazionale in modo riduttivo. In Università osservo giovani vecchi e vecchi giovani. Il dato anagrafico è di un semplicismo enorme. Strumentale al consenso. Mi pare follia far tacere i vecchi a prescindere. La mancata elezione di Prodi al Quirinale è stata una forte manifestazione di questa tendenza, declinata mi pare per un tornaconto personale. È stato, quello, un punto di svolta della politica di questi anni. Accantonare persone come Prodi e Rodotà in nome della giovinezza non lo trovo un criterio».
A cosa attribuisce la sconfitta del Pd?
«Azzardo un’interpretazione.Non si è mai amalgamata la componente ex Dc e ex Pci. Era una miscela di acqua e olio».
Qual è, secondo lei, la funzione della sinistra?
«Quella di garantire diritti e servizi sulla base del criterio di cittadinanza e non di reddito.
Dare opportunità a tutti a prescindere dalla condizione di appartenenza. Esattamente all’opposto rispetto all’idea di selezione naturale. Pensi cosa sarebbe questo Paese se non ci fosse stata l’istruzione pubblica».
La sinistra intera, nel suo complesso, è uscita sconfitta dal voto. Come mai?
«A sinistra è mancato il dibattito non solo interno, ma coi cittadini elettori. Soprattutto coi soggetti deboli. Diversi da quelli che tradizionalmente erano soggetti deboli da ricondurre agli schemi della classe operaia. I soggetti deboli oggi non sono più identificabili per classi: sono ovunque, in ogni aggregato sociale. Sono i figli della borghesia che non trovano lavoro, sono le donne sottopagate. Con forme radicalmente diverse questa è stata la forza della Lega: contatto tradizionale, presenza fisica. I Cinque stelle hanno usato nuovi mezzi. A me spaventa l’utilizzo dei social media, lo dico al di là dell’abuso delle informazioni per finalità illecite. Anche quando sono usati correttamente tendono a favorire una risposta immediata, di pancia. Non c’è spazio per elaborare il pensiero».
Si parla di democrazia diretta del web.
«Sarò d’antan, ma mi preoccupa molto. Un conto è pretendere competenza, un altro rinunciarvi. La scomparsa dei corpi intermedi, mediatori dotati di conoscenze, è rischiosissima.Ci sono temi che richiedono un insieme di saperi approfondito.Pensi ai vaccini. Cosa trova col fai-da-te? Al meglio un’informazione superficiale, al peggio fake news. Non posso che dissentire. Se uno vuol farsi un’opinione di massima, per carità. È lo scopo delle Enciclopedie. Ma lo spirito critico si forma sulla conoscenza. Non so dire se denigrare le competenze, le culture, sia stato un disegno razionale di qualche manovratore o un fenomeno casuale. Le conseguenze tuttavia le abbiamo di fronte. Il fenomeno dell’incompetenza diffusa è il vero nemico della democrazia rappresentativa».
Cosa intende?
«Le faccio un esempio. Un parlamentare non esperto di particolari settori potrebbe trovarsi in balia di funzionari e dirigenti, nominati».
Sa indicare l’origine del processo di impoverimento di spirito critico?
«Temo di essere scontato, ma direi il disegno della tv commerciale. Derubricare la cultura a evasione e fare dell’evasione un settore di affari. Ha portato conseguenze enormi. Per carità: anche ai miei tempi c’era “Il Musichiere”. L’evasione è necessaria, non sono un bacchettone. Ma poi, in nome della pubblicità e dei suoi proventi, è diventata un obbligo. Lo scopo unico e supremo. E questo ci porta alle pensioni».
Ci porta alle pensioni?
«Nel secondo dopoguerra i sistemi pensionistici nascono per evitare povertà durante la vecchiaia. Una prestazione minima di sopravvivenza. Certo, è aumentata l’aspettativa di vita.
Ma prima ancora le pensioni si sono trasformate da strumento di tutela della povertà a sistema di tutela del mantenimento dei consumi. Il concetto è stato completamente snaturato, asservito alla società dei consumi».
Cosa pensa della riforma Fornero?
«Credo sia portatrice di una sostanziale iniquità: il trattamento riservato alle donne. Da un lato potrebbe anche essere ritenuto affascinante il concetto di parità, ma avendo in mente la realtà concreta del lavoro di cura inteso anche come ammortizzatore sociale abbiamo privato le famiglie di un sostegno fondamentale. Le donne che per assenza di servizi pubblici accudiscono genitori e nipoti non sono più in grado di farlo.Non c’è stata attenzione ai bisogni, ma solo emergenza finanziaria».
Mi costringe a dire che esistono anche i nonni.
«Non entro nella questione dei ruoli: osservo che vanno tutti in pensione a 67 anni».
I servizi sono finanziati dalle tasse. Parliamo di tasse.
«Ormai non è possibile evocare la parola tasse se non associata al verbo ridurre. Non esiste riforma del prelievo: è un tabù ideologico, sposato da tutti. Padoa Schioppa diceva le tasse sono belle. Certo: sono belle se funzionano i servizi. Però bisogna avere contezza della realtà. Negli ultimi mesi sono andato nelle osterie di Verona per un ciclo che abbiamo chiamato “Go to science”. Gotu in dialetto è il gotto di vino. Ho parlato di debito pubblico: la gente ascolta fa domande. Prendiamo la Francia. La nostra pressione fiscale è ridicolmente inferiore a quella francese. Se guardiamo la spesa pubblica, quella francese è più alta di quella italiana. Ci si riduce agli slogan. Il vero nostro problema sono i livelli di inefficienza e corruzione. L’ammontare delle tasse è superiore ai servizi perché si deve pagare il debito pubblico, che in larga misura è figlio dell’evasione. Della furbizia, di un atteggiamento individuale non solidale. Se guarda la cartina post elettorale lo vede: fatta l’Italia non si sono fatti gli italiani».
Da dove ripartirebbe?
«Direi dal contatto capillare e articolato con le persone. Temo che non sia stata una buona idea quella di chiudere i luoghi fisici di incontro. Non è immaginabile una Chiesa che chiude le parrocchie e comunica via Twitter, ci sarà un motivo».
E sul piano delle proposte?
«Per far ripartire il Paese servono istruzione e cultura. Penso al fenomeno epocale, inevitabile, dell’immigrazione. Un soggetto che risponde alla pancia delle persone è vincente rispetto a chi cerca di capire, gestire il fenomeno. Per farlo servono strumenti di conoscenza».
E in economia?
«Dalle pensioni. Tornerei ad abbassare l’età delle donne o troverei meccanismi di flessibilità. Dal contrasto all’evasione, alla corruzione. Ma un reale contrasto. Migliorerebbe il prelievo, i servizi. Meno spesa corrente, più investimento. Fare scelte politiche senza pensare al proprio tornaconto elettorale.
Che poi è sempre un orizzonte limitatissimo. Che cosa si può fare per sé, in un anno, per giunta con governo di coalizione?
Davvero poco. Conviene pensare al Paese. Sul serio: è giusto, e addirittura conviene».
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